FEA – analisi a elementi finiti: cenni

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FEA (Finite Element Analysis), trattasi di una metodologia di calcolo basata su approcci analitici possibili solo con le elevate capacità di calcolo fornite dai computer.
Viene identificata anche come FEM (Finite Element Modelling) o, erroneamente, FMEA (Failure Mode and Effects Analysis) – quest’ultima trattasi di una metodologia sistematica per analizzare prodotti e processi sulla base dello studio dei componenti e delle loro specifiche funzioni, allo scopo di anticipare i possibili problemi (o guasti) e trovarne i rimedi. In realtà le FEA costituiscono spesso un tassello fondamentale per soddisfare le esigenze della metodologia FMEA.
Le metodologie FEA, sviluppate inizialmente per le analisi strutturali (stress analysis) ad un livello accademico o per strutture di grandissimo impegno ingegneristico, si sono evolute, contemporaneamente alla riduzione dei costi dei computer, ad un uso più “quotidiano” e, grazie ad opportune varianti, allo studio dei vari aspetti del comportamento di modelli in varie situazioni quali per esempio la simulazione dei processi di trasformazione.
Fondamentalmente queste analisi permettono di determinare la ripartizione delle sollecitazioni in pezzi con forme per le quali non esiste una soluzione matematica completa (equazioni finite) e che, quindi, richiedevano l’impiego di analisi sperimentali. La loro origine è nell’ingegneria civile e, di fatto, la tecnica iniziale assomigliava in qualche modo all’analisi di travi (truss analysis). Il metodo si è poi evoluto, prima nell’industria aerospaziale e, a seguire, quella automobilistica e, infine, a quella dei manufatti con esigenze funzionali.
L’idea alla base della FEA è di dividere in parti relativamente semplici, per l’appunto gli elementi finiti, una struttura di qualsiasi complessità di forma.

La geometria di ogni elemento è quindi descritta da un certo numero di nodi, tipicamente situati ai vertici dell’elemento, in alcuni casi anche sul suo contorno e, talvolta, persino al suo interno. Nel caso classico dell’analisi statica lineare (la forma più semplice) il movimento di ogni punto di ciascun elemento è assunto come funzione nota dei movimenti dei nodi; ciò permette di definire la rigidità dell’elemento e di calcolare il comportamento dello stesso in funzione dell’applicazione di una serie di carichi bilanciati. Poiché gli elementi sono connessi attraverso i nodi comuni, si trova la rigidità degli elementi che contornano un nodo relativamente al suo spostamento e allo spostamento degli altri nodi degli elementi al contorno. Se ciò è ripetuto per ogni nodo del modello, si ottiene una serie di equazioni simultanee che possono essere risolte per determinare lo spostamento di tutti i nodi.

La matematica di questo tipo di equazioni si identifica con il calcolo matriciale. In termini semplici, la matrice è un insieme di numeri disposti in una tabella per righe e per colonne dove ogni numero è identificato da due indici per indicare rispettivamente la riga e la colonna. Il calcolo matriciale è quindi lo studio sistematico delle operazioni che si possono eseguire su queste matrici.
Nel caso specifico, i valori delle coordinate dei nodi sono sistemati in ciò che è tipicamente chiamata matrice B di ogni elemento. Un’altra griglia di numeri forma la matrice D con le proprietà elastiche del materiale. Una serie specifica di moltiplicazioni e divisioni trasforma le matrici B e D nella matrice di rigidità K. A sua volta quest’ultima è assemblata in una matrice di riferimento del manufatto intero. Elementi specifici di questa matrice sono combinati con i carichi e i vincoli esterni. Dopo i calcoli si giunge così alla determinazione degli spostamenti nodali, quindi delle deformazioni (strains) che, assumendo la linearità di comportamento elastico del materiale, si traducono direttamente in sollecitazioni (stress) sullo stesso.
Nel campo ingegneristico della rispondenza meccanica di una struttura, l’uso più comune del metodo FEA è per le analisi elastiche statiche lineari in cui il modello elastico del materiale si può assumere costante nell’intervallo di sforzi/deformazioni considerato e le deformazioni sono sufficientemente piccole da non modificare sostanzialmente la geometria. In realtà esistono almeno due tipi di non linearità di comportamento anche per le analisi di struttura: non linearità geometrica e non linearità del materiale.

La non linearità geometrica si produce quando le distorsioni assumono un valore tale da modificare la linea di azione delle forze. In genere, per i polimeri si assume che quando la deformazione supera l’1.5% l’accuratezza dei risultati peggiora molto rapidamente a meno di utilizzare elementi particolari. Classicamente, questa mancanza di linearità si risolve applicando i carichi con gradualità e modificando la geometria dopo ogni calcolo intermedio. Ciò complica moltissimo le cose e, sebbene per le materie plastiche la situazione di deformazioni relativamente grandi è molto frequente, spesso analisi strutturali di supporto alla progettazione di manufatti ignorano questa problematica.
La non linearità del materiale si manifesta quando il modulo elastico varia con la sollecitazione o quando si hanno deformazioni da scorrimento viscoso (funzione del carico e del tempo). Sfortunatamente, ancora una volta i termoplastici sono il miglior esempio di questa complessità di comportamento. In queste condizioni di non linearità, una classica analisi FEA richiede di iniziare con un modulo stimato che deve poi essere variato in modo iterativo in funzione dei risultati. Per questo motivo le analisi di rigidità con i materiali plastici richiedono l’assistenza di uno specialista in analisi strutturali che sia in grado di decidere quali elementi e assunzioni utilizzare. La conoscenza dei potenziali problemi del modello e una buona comprensione del comportamento dei materiali plastici sono quindi essenziali.
Anche un’accurata analisi di stress è raramente in grado di concludere un’attività di progettazione che richiede sempre la capacità di giudicare che i carichi siano stati applicati correttamente e che le proprietà del materiale siano sufficientemente ben descritte. Fatte salve queste verifiche, l’analisi strutturale è in grado di rimuovere le maggiori incertezze nello sviluppo di un progetto di un manufatto.

la vite giusta per il lavoro giusto

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TESTA DELLA VITE – Come per la semplice testa a taglio, ci sono tre diversi tipi di teste in cui si innesta la punta del cacciavite o la punta del trapano: Torx (TX), Pozidriv (PZ) o a croce e Phillips (PH) o a stella. La Pozidriv (PZ) è quella più comunemente utilizzata. La vite PZ ha altre quattro scanalature tra quelle principali rispetto alla vite a croce PH. La punta del cacciavite corrispondente (PZ) ha tagli diritti e, tra questi, intagli paralleli che si innestano nelle scanalature della testa della vite. Il cacciavite o punta Pozidriv si riconosce dalla cima arrotondata. Questa consente di entrare più in profondità nella testa della vite, garantendo una presa migliore. Le punte e i cacciavite Phillips hanno la cima a punta con tagli ovalizzati.

1. Viti per legno
– Testa: a testa svasata/con calotta
– Impronta: PZ/PH/Torx
– Utilizzo: lavori generici di falegnameria

2. Vite per lamiera
– Testa: cilindrica/a goccia di sego/tonda
– Impronta: taglio
– Utilizzo: fissaggio di lamiere sottili o plastica. Queste viti sono tutte autofilettanti

3. Tiranti (vite a doppio filetto)
– Testa: filettatura per legno (metrica)
– Impronta: vite a doppio filetto
– Utilizzo: fissaggi invisibili tra pannelli di legno, tavole, ecc.

4. Vite mordente o tirafondo per legno
– Testa: esagonale
– Impronta: chiave inglese a bussola
– Utilizzo: fissaggio di tavole pesanti o di altri elementi strutturali in legno

5. Vite per specchi
– Testa: svasata
– Impronta: PZ
– Utilizzo: fissaggio di specchi e accessori per il bagno. La testa di questa vite è nascosta da un cappuccio di plastica o cromato

6. Vite per legno
– Testa: tonda
– Impronta: taglio
– Utilizzo: lavori generici di falegnameria

7. Vite per legno
– Testa: a goccia di sego
– Impronta: taglio
– Utilizzo: fissaggio ferramenta e accessori. La testa della vite rimane sporgente rispetto alla superficie del legno

8. Vite di fissaggio
– Testa: svasata
– Impronta: PZ/PH/TX
– Utilizzo: fissaggio cerniere di porte, targhette e altri elementi decorative con fori svasati

9. Vite per legno
– Testa: svasata
– Impronta: taglio
– Utilizzo: fissaggi universali nel legno. La testa della vite si inserisce all’interno della svasatura quando viene serrata

VITE DI FISSAGGIO – Questo tipo di vite viene utilizzato per fissare bandelle (cerniere per pianoforte) e cerniere per finestre. Il diametro della testa è più piccolo della norma, in questo modo la testa si inserisce con discrezione nel foro svasato della cerniera. Disponibile da 16 a 30 mm, di norma con impronta PZ.

VITE PER TAVOLE IN MDF – Le viti per tavole in MDF sono ideali per pannelli in MDF per interni e mobilia. La testa svasata della vite può essere facilmente e rapidamente inserita nella sua sede. Puoi serrare la vite fino al bordo senza spaccare il materiale e non c’è bisogno di praticare prefori. Le viti per MDF hanno una speciale filettatura e sono disponibili da 40 a 50 mm, di norma con impronta TX.

VITE PER PAVIMENTI – Le viti per pavimenti sono ideali per pavimenti in legno massiccio. La vite può essere completamente inserita nel pavimento grazie alla sua testa di forma conica e dal diametro ridotto. Non è necessario praticare prefori; le viti per pavimento non spaccano il legno. Disponibile da 35 a 55 mm, di norma con impronta TX.

VITE PER TRUCIOLATO – Le viti per truciolato servono per fissare pannelli in truciolato, ad esempio in tettoie per automobili, balconi e altre strutture di supporto. Vengono usate anche per zoccoli, ferramenta di fissaggio e listoni per rivestimenti. Queste viti sono disponibili con teste svasate, cilindriche e a goccia di sego. Disponibili da 35 a 200 mm, di norma con impronta PZ.

VITE PER CARTONGESSO – Le viti per cartongesso sono adatte per il fissaggio di cartongesso su strutture di supporto in legno. Hanno la testa a forma di tromba e una filettatura a passo grosso. Queste viti consentono di eseguire un fissaggio rapido e resistente. Non è necessario praticare prefori fino a uno spessore di 2 mm. Le viti per cartongesso sono indurite e hanno una placcatura protettiva. Disponibili in lunghezze che vanno da 25 a 90 mm, di norma con impronta PH.

VITE IN ACCIAIO INOX – Le viti in acciaio inossidabile sono ideali per applicazioni all’esterno o in ambienti umidi. Queste viti sono disponibili con teste svasate, cilindriche o a goccia di sego e sono destinate ai fissaggi legno su legno come in tettoie per automobili, balconi e altre strutture di supporto. Disponibili in lunghezze che vanno da 25 a 120 mm, di norma con impronta TX.

VITE DA COSTRUZIONE – Le viti da costruzione sono facili da fissare grazie alla filettatura di lunghezza ridotta. Queste viti sono ideali per strutture in legno come intelaiature a traliccio e case, tettoie per automobili, lavori di ampliamento abitazione e aree di gioco. È facile inserire queste viti nelle svasature grazie alle nervature sotto la testa. Non è necessario il preforo. Queste viti sono disponibili con testa svasata e tonda flangiata. Disponibili in lunghezze che vanno da 80 a 400 mm, di norma con impronta TX.

VITE MORDENTE (TIRAFONDO PER LEGNO) – Le viti mordenti o tirafondi per legno hanno la testa esagonale e sono disponibili da M5 a M8 in lunghezze da 30 a 100 mm. Queste viti vengono utilizzate per supportare carichi pesanti. Ad esempio, sono ideali per appendere radiatori per riscaldamento centrale, per il fissaggio di una tavola o di una trave secondaria al pavimento, oppure per fissare le gambe di tavoli pesanti. Per serrare la testa esagonale utilizza una chiave inglese o a bussola.

Artroscopia del ginocchio & instabilità rotulea

fonti: uno, due e tre

L’artroscopia del ginocchio è una tecnica chirurgica minimamente invasiva, che permette la diagnosi e la cura di numerose problematiche del ginocchio. La sua esecuzione prevede la pratica di piccolissime incisioni cutanee a livello del ginocchio e l’impiego dell’artroscopio, uno strumento a forma di cannuccia e dotato di una telecamera e una fonte luminosa. Con un unico strumento è possibile sia effettuare la diagnosi che operare al tempo stesso, con un notevole risparmio di tempo. Le procedure di artroscopia del ginocchio impongono una certa preparazione, la quale tuttavia è molto semplice da attuare. Nell’artroscopia del ginocchio, fase post-operatoria, tempi di guarigione e ritorno alle attività quotidiane variano in base ai motivi di attuazione della tecnica chirurgica in questione.

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L’artroscopio presenta, a un’estremità, una rete di fibre ottiche con la doppia funzione di telecamera e sorgente luminosa, e, quasi all’altra estremità, un cavo per l’accensione della rete a fibre ottiche e per il collegamento della suddetta telecamera a un monitor. Durante gli interventi in artroscopia del ginocchio, l’artroscopio è lo strumento che il medico operante introduce, dalla parte della telecamera e della sorgente luminosa, all’interno dell’articolazione del ginocchio e che utilizza, successivamente, come macchina da presa esplorativa capace di trasmettere quanto filmato nel monitor collegato.
Grazie alla sua forma a cannuccia, l’artroscopio è un apparecchio estremamente maneggevole e capace di incunearsi in ogni angolo dell’articolazione; inoltre, sempre grazie alla sua forma assottigliata, la sua introduzione all’interno del corpo umano non richiede l’esecuzione di una grande incisione, ma solo di una piccola apertura cutanea non superiore al centimetro.

Si posiziona l’artroscopio nell’articolazione del ginocchio, dove è possibile visualizzare i menischi, le cartilagini e i legamenti crociati (artroscopia diagnostica). Se è presente una patologia a carico di queste strutture è possibile passare alla fase chirurgica vera e propria con possibilità di effettuare meniscectomie (asportazione di frammenti meniscali), e regolarizzazione (nei limiti del possibile) delle lesioni cartilaginee; è possibile sotto guida artroscopica effettuare ricostruzioni legamentose dei legamenti crociati.

INSTABILITÀ ROTULEA

L’instabilità rotulea è una patologia che nasce dalla incongruenza articolare nello scorrimento della rotula sulla doccia femorale (troclea) e si codifica in rapporto al grado/gravità, dall’iperpressione rotulea esterna alla lussazione rotulea con il grado intermedio della sublussazione rotulea.

I sintomi variano in rapporto alla gravità. Nei casi più lievi, il sintomo più frequente è il dolore anteriore al ginocchio e dolore che compare mantenendo a lungo una posizione a ginocchio flesso. Nei casi di maggiore gravità, il paziente lamenta “cedimenti” o instabilità del ginocchio, non riesce a praticare adeguatamente sport in carico e può riferire anche la “fuoriuscita” della rotula, incompleta (sublussazione) o completa (lussazione).

L’approfondito esame clinico specialistico è fondamentale per inquadrare correttamente la patologia e deve valutare non solo la condizione del ginocchio, ma di tutto l’arto inferiore (analisi dell’asse biomeccanico e della rotazione del femore, condizione muscolare etc.) e si integra all’acquisizione di specifici esami strumentali quali RX assiali con proiezione rotulea, RMN e TC con scansioni specifiche/protocollo lionese. È importante valutare in modo accurato la patologia monitorando anche la condizione cartilaginea dell’articolazione femoro-rotulea in quanto l’incongruenza od instabilità può produrre in varia misura una usura accelerata della cartilagine.

Il trattamento conservativo (comprensivo di potenziamento e riequilibrio muscolare) porta a risultati positivi anche nei casi di minore gravità, si integra all’utilizzo di terapia fisica nelle fasi acute e si associa anche all’utilizzo di specifiche ginocchiere, che possono portare ad un oggettivo miglioramento della congruenza rotulea e può premettere di praticare attività sportiva. Il “banco di prova” del recupero funzionale è nello sportivo è la completa ripresa dell’attività in assenza di limitazioni funzionali. In alternativa, il trattamento artroscopico varia in rapporto alla gravità e condizione della patologia.

Cariche inerti per resine

fonti: uno e due

Sono considerate cariche tutti i materiali inerti, generalmente polveri di varia origine (minerale, vegetale, metallica) e granulometria, che possono essere aggiunti alle resine per modificarne le caratteristiche come il peso, la resistenza meccanica, la lavorabilità, la densità, l’aspetto, la tixotropia e la consistenza in genere, senza però modificarne la reazione chimica.
L’aggiunta di cariche inerti nella resina comporta l’aumento del volume del composto (resina + carica), riducendo al contempo la percentuale di resina nella massa. Questo genera diversi vantaggi, come l’abbassamento del picco esotermico (massima temperatura raggiungibile durante il processo di polimerizzazione delle resine), l’aumento della stabilità dimensionale e il contenimento del costo totale.
Ogni tipo di carica ha in genere un diverso comportamento nei riguardi della resina in cui è stata additivata, e ciò determina le caratteristiche finali del composto. Le particelle delle diverse cariche infatti hanno strutture diverse tra di loro: possono essere sferiche, lamellari, poliedriche o amorfe, e ciò influisce sul rapporto tra incremento di volume e viscosità del composto. Di seguito alcuni esempi di cariche comunemente impiegate.

Polveri e graniglie minerali:

  • Expanglass (granuli di vetro soffiato):inerte leggero ed altamentemicrosfere-vetro-cave-s resistente a compressione. Non assorbe resina ed ha alte resistenze chimiche. Compatibile con tutti i tipi di resina.
  • Sabbie di quarzo: pure e selezionate da utilizzare con resine epossidiche, nella preparazione di malte ad alta resistenza per riparazioni di pavimenti industriali, sigillatura lesioni, rifacimento parti mancanti; edilizia, restauro.

Graniglie metalliche:

    • Graniglia di alluminio: carica per la costruzione di stampi in resina epossidica; agevola la dissipazione del calore.
    • Graniglie selezionate di rame, bronzo, ottone e zinco:conglomerati ad alto graniglie_metallichecontenuto di metallo, con legante poliestere per settoreartistico e oggettistica.
    • Grafite: in polvere finissima costituita da carbonio puro, utilizzata per disegnare su carta creazioni prospettiche,sfumature e per dare rilievo a luci e ombre. Se dispersa in un legante permette di ottenere colorigrafite-polvere-small per pittura. Utilizzata anche come carica inerte per resine da colata e resine da laminazione.

Graniglie vegetali:

  • Gusci di noce: macinati, vengono utilizzati nel settore restauro per sabbiature delicate su dipinti e opere in legno, o in impasti con resine per ottenere conglomerati (esempio: pasta legno lavorabile per restauro di opere lignee).
  • Polvere di legno: ottenuta dalla macinazione di fibre vegetali, è ideale per essere polvere-legno-smallutilizzata come carica inerte di riempimento per resine e colle nella produzione di composti da colata, stucchi e paste che una volta induriti, assumendo le caratteristiche tipiche del legno come il peso, la lavorabilità e l’aspetto, possano essere utilizzati per interventi riempitivi e di ricostruzione di supporti e manufatti in legno.
  • Polpa di cellulosa: è costituita da microfibre di pura cellulosa insolubili nella maggior parte dei solventi, ed è utilizzata come carica inerte per resine e nella preparazione di pappette o impacchi di pulitura per superfici lapidee ed affreschi, alle quali conferisce proprietà supportanti e assorbenti.polpa-cellulosa-small

Leachy ou Reachy ?

Dans le cadre d’un projet de recherche, Pollen Robotics et l’INCIA ont créé en 2017 Reachy, un bras robotique bio-inspiré reprenant la taille et les mobilité d’un bras adulte à 7 degrés de liberté. Reachy est destiné à être une plateforme de recherche et d’expérimentation permettant, par exemple, d’explorer de nouvelles interactions ou encore les problématiques liées à la commande dans des espaces de grandes dimensions. Open source, imprimé en 3D et modulaire, il est conçu pour pouvoir facilement s’adapter à différent setups expérimentaux !

reachyandleachyAujourd’hui Reachy est disponible dans une nouvelle version qui inclue:

  • une mécanique totalement revue permettant la réalisation de mouvements lisses et précis,
  • la cinématique inverse et directe,
  • la possibilité d’ajouter une main faite par OpenBionics,
  • une version bras gauche appelée Leachy

À ne pas rater le site web officiel de Pollen Robotics 🙂

pollen

la brunitura dei metalli

fonte: wiki

La brunitura è anche detta bronzatura o metallocromia. Si tratta del processo di colorazione superficiale di un metallo ed è praticata principalmente per fornire una protezione contro l’ossidazione, che altera le proprietà del metallo. Tramite la brunitura, il metallo cambia in aspetto assumendo una colorazione più scura.

brun3Escludendo l’acciaio inox, sui metalli ferrosi la brunitura si può eseguire principalmente in due modi:

  1. immergendo il pezzo di ferro o acciaio, ben pulito e sgrassato, in un bagno d’ acqua con acetato di piombo, iposolfito di sodio ed altre sostanze;
  2. immergendo il pezzo, sempre ben pulito e sgrassato, in un bagno a circa 100 °C di acqua in cui vengono disciolti iposolfito di sodio, acetato di piombo e solfato di rame.

Quantità delle sostanze e tempi di immersione possono variare a seconda del metallo da trattare e del colore che questo deve assumere (il metallo assume via via vari colori passando dal blu chiaro, al porpora, al grigio, fino al nero). Ad esempio, una brunitura nera e brillante su ferro ed acciaio si può anche ottenere immergendo il pezzo scaldato fino al colore giallo in olio e, una volta raggiunta la brunitura, scaldandolo ancora lievemente per poi lasciarlo raffreddare a temperatura ambiente. Un altro sistema, assai vecchio (utilizzato generalmente dai restauratori) ma che non altera le proprietà della tempra consiste nel cospargere il pezzo con cera vergine di api alla quale viene successivamente dato fuoco. Una volta che questa è completamente bruciata il pezzo viene lasciato lentamente raffreddare.

brun1Sui metalli non ferrosi come rame, ottone o bronzo si può ottenere una brunitura utilizzando una soluzione di solfuro di potassio (chiamato comunemente “fegato di zolfo“), semplicemente immergendovi i pezzi ben sgrassati anche a freddo e sciacquandoli poi in acqua corrente.

A livelli industriali, uno dei vari metodi di brunitura più utilizzati consiste nel trattamento galvanico. Il pezzo da trattare viene immerso in una soluzione acquosa di solfantimoniato di sodio (o “sale di Schlippe“), di carbonato di sodio anidro e successivamente subisce un’elettrolisi per alcuni minuti (temperatura ambiente, corrente di 0,35 ampere, tensioni comprese tra 2,4 e 4 volt). Questo metodo è impiegato anche nel trattamento di rame ed ottone. Esistono poi in commercio soluzioni brunitrici già pronte, che agiscono anche a freddo e richiedono solo una preventiva accurata pulizia dei pezzi da trattare.

brun2

È sufficiente stendere un velo di prodotto (o più se si desidera un colore più scuro) sul pezzo; una volta raggiunto il colore voluto, il pezzo va sciacquato in acqua ed asciugato accuratamente, quindi lasciato immerso in olio per un certo tempo (onde evitare la possibile ossidazione che potrebbe sopravvenire nelle ore immediatamente successive). Tali soluzioni esistono sia per metalli ferrosi che non, ma generalmente non permettono di ottenere una brunitura omogenea e uniforme su pezzi di grandi dimensioni.

HARRI, un robot qui veut votre main

du site internet de l’Université Laval

Des chercheurs ont mis au point un système robotisé permettant à deux personnes de se serrer la main à distance

Imaginez le tableau. Barack Obama, dans le bureau ovale de la Maison-Blanche, et Justin Trudeau, dans son cabinet de l’édifice Langevin, doivent discuter d’un sujet urgent par visioconférence. La communication est établie, les deux hommes s’échangent les salutations d’usage et, par l’entremise d’une interface robotisée appelée HARRI, ils se serrent vigoureusement la main, comme ils le feraient en chair et en os. La chose paraît impensable, mais les travaux menés par l’équipe de Clément Gosselin, au Département de génie mécanique, pourraient théoriquement conduire à la concrétisation de cette idée. La demande pour un tel système est très hypothétique, reconnaît d’emblée le professeur Gosselin, mais la science sur laquelle il repose pourrait avoir des applications très concrètes en télésanté.

Au fil des ans, Clément Gosselin et ses collaborateurs du Laboratoire de robotique ont développé une expertise dans les préhenseurs intelligents. Ils ont notamment mis au point la main SARAH, dotée de trois doigts mobiles dont l’action mécanique s’adapte avec souplesse à la forme des objets qu’elle saisit. SARAH est actionnée par deux moteurs électriques et elle peut ajuster sa force de préhension à la nature de l’objet manipulé, qu’il s’agisse d’un madrier, d’une bague, d’une balle de tennis ou d’une éponge. Une version modifiée de cette main a été conçue pour participer au démantèlement d’un centre de recherche nucléaire en Grande-Bretagne. De plus, une version humanisée de ce préhenseur, destinée aux personnes amputées, a récemment fait l’objet de tests cliniques.

harriPlusieurs composantes de ces mains robotisées ont été utilisées pour créer HARRI, signale le professeur Gosselin. “Le but du projet est de concevoir un système permettant à un thérapeute de guider à distance les mouvements d’un patient. Il fallait donc développer une interface capable de communiquer de façon bidirectionnelle les mouvements de deux personnes. Dans un premier temps, nous nous sommes donné le défi d’y arriver avec l’un des gestes bidirectionnels les plus courants chez les humains: une poignée de main.

Dans un article du récent numéro du Journal of Mechanisms and Robotics, Nicolò Pedemonte, Thierry Laliberté et Clément Gosselin expliquent comment ils sont parvenus à concevoir HARRI, un acronyme pour Handshaking Anthropomorphic Reactive Robotic Interface. “La principale difficulté consistait à rendre le geste réaliste, précise le professeur Gosselin. Il faut que la fermeté de la main ainsi que la dynamique du mouvement imitent ce qui se produit lorsqu’on serre la main d’un être humain.” HARRI comporte des senseurs, deux moteurs et une interface qui transmet des informations à une autre main robotisée située à distance. Un système miroir fait la même chose à l’autre extrémité. Chaque doigt de HARRI est articulé, mobile et indépendant des autres, ce qui donne une bonne dose de flexibilité et de réalisme à l’ensemble. Les mains peuvent être montées sur un robot ou sur des rails verticaux.

Aux dires des personnes qui ont serré la pince de HARRI, les résultats sont étonnants. “C’est très réaliste, confirme Clément Gosselin. Le système transmet fidèlement le style de poignée de main de chaque personne.” Advenant le cas où une grande distance séparerait les deux interlocuteurs, il faudrait tenir compte du décalage dans la transmission des signaux, mais il existe déjà des algorithmes qui permettent de tels ajustements.

L’idée de serrer la main d’une personne par l’intermédiaire d’un robot fait sourire, mais y a-t-il vraiment une demande pour un tel système? “Pour l’instant, non, répond le chercheur, mais dans un univers où les rapports humains sont de plus en plus virtuels, ce geste pourrait être apprécié dans certaines circonstances. Les applications possibles dans le domaine de la télésanté sont plus évidentes. Un thérapeute pourrait guider à distance les mouvements d’une personne en réadaptation et s’assurer qu’elle les exécute correctement, qu’il s’agisse de mobiliser certaines articulations ou encore de lui réapprendre à écrire.

Solenoid actuators: some hints

source: this website

A solenoid actuator can be defined as an electromagnetic device that converts an electrical signal into a magnetic field. Solenoids are available in a variety of formats; the  two more common types are the linear solenoid and the rotary solenoid.

io15In a Linear Solenoid (LS), electrical energy is converted into a mechanical pushing or pulling force or motion. Inside the LS, an electrical coil is wound around a cylindrical tube with a ferromagnetic actuator, called plunger. When electrical current flows through the coil, a magnetic field is instantaneously generated. The direction of this magnetic field is determined by the direction of the current flow within the wire. Thus, the coil becomes an electromagnet with its own north and south poles: in such a configuration, the coil behaves exactly as a permanent type magnet. The strength of the magnetic field can be increased or decreased by either controlling the amount of current flowing through the coil or by changing the number of turns (loops) of the coil windings.

When an electrical current is passed through the coil windings, the plunger, which is is free to move (to slide) in and out of the coil body, is attracted by the magnetic flux. Accordingly, the plunger translates towards the center of the coil body. Such translation results in the mechanical pushing or pulling force provided by the LS. The force and speed of the plunger movements is determined by the strength of the magnetic flux generated within the coil (which depends, as mentioned above, on the amount of electrical current). When the supply current is turned off (de-energized) the electromagnetic field collapses and the plunger is allowed to go back to its original rest position. This is usually achieved passively, by means of a return spring (a small compression spring attached to one end of the plunger itself).  Both push- and pull-LS types are generally constructed the same with the difference being in the location of the return spring and design of the plunger. The back and forth movement of the plunger is known as the LS’s stroke, in other words the maximum distance the plunger can travel pull-LS.gifin either in or out direction. LSs can be used to electrically open doors and latches, open or close valves, move and operate robotic limbs and mechanisms, and even actuate electrical switches just by energizing its coil. LSs can also be designed for proportional motion control, were the plunger position is proportional to the input power.

Analogously, a Rotary Solenoid (RS) provides the rotational movement of the plunger in either clockwise, anti-clockwise or in both directions. The coil is wound around a steel frame with a magnetic disk connected to an output shaft. When the coil is energized, the electromagnetic field generates multiple north and south poles. These poles repel the adjacent permanent magnetic poles of the disk, causing the latter to rotate at an angle determined by the mechanical construction of the rotary solenoid. Therefore, the shaft rotation can be controlled by either energizing or de-energizing the RS, or by altering the position of the permanent magnet rotor.

Commonly available RSs have strokes of 25, 35, 45, 60 and 90 degrees, as well as multiple movements to and from a certain angle. RSs can be used to replace small DC motors or stepper motors were the angular movement is very small, with the angle of rotation being the angle moved from a desired start position to a specific end position. RSs are used in vending or gaming machines, valve control, camera shutter with special high speed.

solenoids

Check out this website for many other useful hints about solenoid switching, energy consumption and duty cycle 🙂

step motors: some hints

source: this website

A step motor is a constant output power transducer, where power is defined as torque multiplied by speed. This means motor torque is the inverse of motor speed. An interesting aspect of a step motor is that its power is independent of speed.

In general terms, torque is proportional to ampere-turns (current * the number of turns of wire in the winding). Since current is the inverse of speed, torque also has to be the inverse of speed. In an ideal step motor, as speed approaches zero, its torque would approach infinity while at infinite speed torque would be zero. Because current is proportional to torque, motor current would be infinite at zero as well. Electrically, a real motor differs from an ideal one primarily by having a non-zero winding resistance. Also, the iron in the motor is subject to magnetic saturation, as well as having eddy current and hysteresis losses. Magnetic saturation sets a limit on current to torque proportionally while eddy current and hysteresis (iron losses) along with winding resistance (copper losses) cause motor heating.

TScurveThe first figure here shows an ideal motor’s natural speed-torque curve. Below a certain speed, called the corner speed, current would rise above the motor’s rated current, ultimately to destructive levels as the motor’s speed is reduced further. To prevent this, the drive must be set to limit the motor current to its rated value. Because torque is proportional to current, motor torque is constant from zero speed to the corner speed. Above the corner speed, motor current is limited by the motor’s inductive reactance. The result is a two-part speed-torque curve which features constant torque from zero speed until it intersects the motor’s natural load line, called the corner speed, beyond which the motor is in the constant power region.

TScurveREALA real step motor has losses that modify the ideal speed-torque curve, as shown in the second figure here. The most important effect is the contribution of detent torque. Detent torque is usually specified in the motor datasheet. It is always a loss when the motor is turning and the power consumed to overcome it is proportional to speed. In other words, the faster the motor turns the greater the detent torque contributes power loss at the motor’s output shaft. This power loss is proportional to speed and must be subtracted from the ideal, flat output power curve past the corner speed. Notice how the power output decreases with speed because of the constant-torque loss due to detent torque and other losses. The same effect causes a slight decrease in torque with speed in the constant torque region as well. Finally, there is a rounding of the torque curve at the corner speed because the drive gradually transitions from being a current source to being a voltage source.

TScurve2XFinally, the motor power output (speed * torque) is determined by the power supply voltage and the motor’s inductance. The motor’s output power is proportional to the power supply voltage divided by the square root of the motor inductance. As illustrated in the third figure here, if one changes the power supply voltage, then a new family of speed-torque curves results. As an example, if the power supply voltage is doubled then the curve has twice the torque at any given speed in the constant torque region. Since power equals torque times speed, the motor now generates twice as much power as well.

 

Prosthetic Knee Systems Overview

source: Bill Dupes’s original post published on this website

OF ALL PROSTHETIC COMPONENTS, THE KNEE SYSTEM IS ARGUABLY THE MOST COMPLEX. IT MUST PROVIDE RELIABLE SUPPORT WHEN STANDING, ALLOW SMOOTH, CONTROLLED MOTION WHEN WALKING, AND PERMIT UNRESTRICTED MOVEMENT FOR SITTING, BENDING AND KNEELING.

Prosthetic knees have evolved greatly over time, from the simple pendulum of the 1600s to those regulated by rubber knees01bands and springs or pneumatic or hydraulic components. Now, some knee units have advanced motion control modulated through microprocessors. For the transfemoral (above-knee, including hip and knee disarticulation) amputee, successful function depends on selecting the correct knee to fit the person’s age, health, activity level and lifestyle. The latest or advanced knee is not necessarily the best choice for everyone. For some amputees, safety and stability are more important than functional performance. Active amputees, on the other hand, prefer a knee that will give them a higher level of function even if it requires greater control.

Given the wide variety of choices and consumer needs, prosthetists and rehabilitation specialists can help amputees choose the best prosthetic knees for their individual requirements. They can also teach amputees how to use their new knees properly, which is critical for avoiding discomfort, stumbling and falling. A key way to evaluate an individual’s prosthetic needs is to observe his or her walking cycle, which can be divided into two parts: the “stance phase” (when the leg is on the ground supporting the body) and the “swing phase” (when the leg is off the ground, also referred to as “extension”). The happy medium between these two extremes (stance, or stability, versus ease of swing, or flexion) is different for each individual.

Although over 100 individual knee mechanisms are commercially available, they can be divided into two major classifications: mechanical and computerized. Mechanical knees can be further separated into two groups: single-axis knees and polycentric, or multiaxis, knees. All knee units, regardless of their level of complexity, require additional mechanisms for stability (manual or weight-activated locking systems) and additional mechanisms for control of motion (constant or variable friction and “fluid” pneumatic or hydraulic control).

Single-Axis Vs. Polycentric Knees

The single-axis knee, essentially a simple hinge, is generally considered the “workhorse” of the basic knee classes due to its knees02relative simplicity, which makes it the most economical, most durable, and lightest option available. Single-axis knees do have limitations, however. By virtue of their simplicity, amputees must use their own muscle power to keep them stable when standing. To compensate for this, the single-axis knee often incorporates a constant friction control and a manual lock. The friction keeps the leg from swinging forward too quickly as it swings through to the next step.

knees03Polycentric knees, also referred to as “fourbar” knees, are more complex in design and have multiple axes of rotation. Their versatility is the primary reason for their popularity. They can be set up to be very stable during early stance phase, yet easy to bend to initiate the swing phase or to sit down. Another popular feature of the knee’s design is that the leg’s overall length shortens when a step is initiated, reducing the risk of stumbling. Polycentric knees are suitable for a wide range of amputees. Various versions are ideal for amputees who can’t walk securely with other knees, have knee disarticulation or bilateral leg amputations, or have long residual limbs. A standard polycentric knee has a simple mechanical swing control that provides an optimal single walking speed; however, many polycentric knees incorporate fluid (pneumatic or hydraulic) swing control to permit variable walking speeds. The most common limitation of the polycentric design is that the range of motion about the knee may be restricted to some degree, though usually not enough to pose a significant problem. Polycentric knees are also heavier and contain parts that may need to be serviced or replaced more often than those of other types of prosthetic knees.

Microprocessor Knees

Microprocessor knees are a relatively new development in prosthetic technology. Onboard sensors detect movement and timing and then knees04adjust a fluid /air control cylinder accordingly. These microprocessor-controlled knees lower the amount of effort amputees must use to control their timing, resulting in a more natural gait. In spite of all of the amazing inventions and constant tweaks and improvements, the perfect prosthetic knee has yet to be invented; otherwise, there wouldn’t be over 100 different designs on the market. As advanced as the technology seems today compared to the earliest designs of the 1600s, one can only imagine the developments that will eventually result as researchers further explore the potential of mechanical, hydraulic, computerized and “bionic,” or neuroprosthetic, technology.

– by the way, my CV is finally up-to-date! –