il labbro acetabolare dell’anca

fonte: Ortopedia Borgotaro

Il labbro acetabolare è un anello fatto di fibro-cartilagine (un tessuto simile a quello del menisco del ginocchio) intorno alla coppa dell’anca (acetabolo), quella tasca nella quale si inserisce la testa del femore. Questa struttura è molto importante per la normale funzione dell’articolazione dell’anca. Essa aiuta a mantenere la testa del femore (l’osso della coscia) all’interno dell’acetabolo la coppa del bacino (dove la testa del femore si inserisce e si muove). Il labbro acetabolare funziona come una guarnizione fornendo stabilità all’articolazione dell’anca.

Il labbro acetabolare ha due lati: un lato è a contatto con la testa del femore, l’altro lato tocca e prende connessioni con la capsula articolare. La capsula è costituita da forti legamenti che circondano l’anca e aiutano a tenerla in posizione pur consentendole di muoversi in molte direzioni. Il lato extra-articolare del labbro (quello a contatto con la capsula articolare) ha un buon apporto di sangue, ma la zona intra-articolare (a contatto con la testa del femore) è in gran parte avascolare (senza sangue). Questo significa che qualsiasi danno al lato extra-articolare ha più probabilità di guarire mentre il lato intra-articolare (con un molto scarso apporto di sangue) non guarisce bene a seguito di lesioni o di riparazioni chirurgiche.

Il labbro aiuta a sigillare l’articolazione dell’anca, mantenendo così la pressione del fluido all’interno dell’articolazione e fornendo la nutrizione alla cartilagine articolare. Senza un sigillo intatto, aumenta il rischio di artrosi degenerativa precoce. Un labbro danneggiato può anche provocare uno spostamento del centro di rotazione dell’anca. Un cambiamento di questo tipo aumenta l’impatto e il carico sull’articolazione. Senza la protezione di questa guarnizione o con una testa femorale fuori centro, il movimento ripetitivo dell’anca può creare piccole lesioni al labbro e alla articolazione dell’anca. Nel corso del tempo, queste piccole lesioni possono portare ad usura dell’articolazione dell’anca (artrosi).

Un tempo si credeva che un singolo trauma (come ad esempio durante una corsa, lo sport, una torsione, una caduta) era la ragione principale di una lesione del labbro acetabolare. Nel tempo, con migliori studi di imaging e con la comprensione derivata dall’artroscopia, è emerso che la forma anomala dell’acetabolo e/o della testa del femore (il Conflitto Femoro-Acetabolare) erano una delle cause più frequenti del problema. Sebbene l’infortunio rimanga una delle principali cause di lesioni labrali, quasi sempre una lesione del labbro acetabolare avviene quando esistono delle cause predisponenti. I cambiamenti anatomici che contribuiscono alle lesioni labrali combinati con piccole lesioni ripetitive portano ad una graduale insorgenza del problema. Attività sportive che richiedono movimenti oscillanti ripetitivi (come ad esempio il gioco del golf) o la ripetuta flessione dell’anca possono provocare questo tipo di piccole lesioni.

La lesione più comune è chiamata Conflitto Femorale Acetabolare (o FAI – Femoro Acetabular Impingement): quando una gamba flette e ruota internamente e si muove verso il corpo, l’osso del collo femorale (soprattutto se strutturato in modo anomalo) urta contro il bordo acetabolare pizzicando il labbro tra il collo femorale stesso ed il bordo acetabolare. Nel tempo, questo pizzicare del labbro provoca usura e lacerazione dei suoi bordi. Una rottura completa viene indicata come avulsione in cui il labbro è separato dal bordo dell’acetabolo dove si attacca normalmente. Cambiamenti nel normale movimento dell’anca combinati con debolezza muscolare attorno all’anca possono portare alle lesioni del labbro acetabolare. Altre cause includono lassità capsulare (legamenti lassi), displasia dell’anca (alterazioni anatomiche dalla nascita), lesioni da trazione e alterazioni degenerative (artrosi) associati con l’invecchiamento. Chiunque abbia avuto una malattia dell’anca dell’infanzia (quali la malattia di Legg-Calvè-Perthes, la displasia dell’anca, l’epifisiolisi) ha un rischio aumentato di lesioni labrali.

Il principale sintomo dovuto ad una lesione del labbro acetabolare è dolore nella parte anteriore dell’anca (più spesso nella zona inguinale), accompagnato da una sensazione tipo clic, o da una specie di blocco dell’anca. Sintomi comuni sono anche rigidità articolare e una sensazione di instabilità in cui l’anca e la gamba sembrano cedere. Il dolore può irradiare lungo i glutei, lungo il lato esterno dell’anca, o anche fino al ginocchio. I sintomi peggiorano con lunghe camminate, o quando si sta seduti. Facendo perno sull’anca malata si può avvertire dolore. Alcuni pazienti zoppicano o hanno un segno di Trendelenburg positivo (l’anca scende sul lato destro se si sta in piedi solo sulla gamba sinistra e viceversa). Il dolore può essere costante e sufficiente a limitare tutte le attività ricreative e sportive.

La storia e l’esame fisico sono i primi strumenti che il medico usa per diagnosticare una lesione del labbro acetabolare dell’anca. Una storia di trauma nota legata al dolore all’anca può esserci come no. Quando ci sono cause anatomiche e strutturali o squilibri muscolari che contribuiscono allo sviluppo delle lesioni labrali, i sintomi possono svilupparsi gradualmente nel tempo. Il medico eseguirà alcuni test; quello più comune è il segno dell’impingement, che viene effettuato piegando l’anca a 90 gradi (flessione), ruotando l’anca verso l’interno (rotazione interna) e portando la coscia verso l’altra anca (adduzione). Fare la diagnosi non è sempre facile ed il medico deve poter contare su ulteriori test per individuare la causa esatta del dolore (raggi X, Artro risonanza magnetica nucleare). A seconda dei casi, il trattamento può essere conservativo (fisioterapia) oppure chirurgico (artroscopia).

Artroscopia del ginocchio & instabilità rotulea

fonti: uno, due e tre

L’artroscopia del ginocchio è una tecnica chirurgica minimamente invasiva, che permette la diagnosi e la cura di numerose problematiche del ginocchio. La sua esecuzione prevede la pratica di piccolissime incisioni cutanee a livello del ginocchio e l’impiego dell’artroscopio, uno strumento a forma di cannuccia e dotato di una telecamera e una fonte luminosa. Con un unico strumento è possibile sia effettuare la diagnosi che operare al tempo stesso, con un notevole risparmio di tempo. Le procedure di artroscopia del ginocchio impongono una certa preparazione, la quale tuttavia è molto semplice da attuare. Nell’artroscopia del ginocchio, fase post-operatoria, tempi di guarigione e ritorno alle attività quotidiane variano in base ai motivi di attuazione della tecnica chirurgica in questione.

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L’artroscopio presenta, a un’estremità, una rete di fibre ottiche con la doppia funzione di telecamera e sorgente luminosa, e, quasi all’altra estremità, un cavo per l’accensione della rete a fibre ottiche e per il collegamento della suddetta telecamera a un monitor. Durante gli interventi in artroscopia del ginocchio, l’artroscopio è lo strumento che il medico operante introduce, dalla parte della telecamera e della sorgente luminosa, all’interno dell’articolazione del ginocchio e che utilizza, successivamente, come macchina da presa esplorativa capace di trasmettere quanto filmato nel monitor collegato.
Grazie alla sua forma a cannuccia, l’artroscopio è un apparecchio estremamente maneggevole e capace di incunearsi in ogni angolo dell’articolazione; inoltre, sempre grazie alla sua forma assottigliata, la sua introduzione all’interno del corpo umano non richiede l’esecuzione di una grande incisione, ma solo di una piccola apertura cutanea non superiore al centimetro.

Si posiziona l’artroscopio nell’articolazione del ginocchio, dove è possibile visualizzare i menischi, le cartilagini e i legamenti crociati (artroscopia diagnostica). Se è presente una patologia a carico di queste strutture è possibile passare alla fase chirurgica vera e propria con possibilità di effettuare meniscectomie (asportazione di frammenti meniscali), e regolarizzazione (nei limiti del possibile) delle lesioni cartilaginee; è possibile sotto guida artroscopica effettuare ricostruzioni legamentose dei legamenti crociati.

INSTABILITÀ ROTULEA

L’instabilità rotulea è una patologia che nasce dalla incongruenza articolare nello scorrimento della rotula sulla doccia femorale (troclea) e si codifica in rapporto al grado/gravità, dall’iperpressione rotulea esterna alla lussazione rotulea con il grado intermedio della sublussazione rotulea.

I sintomi variano in rapporto alla gravità. Nei casi più lievi, il sintomo più frequente è il dolore anteriore al ginocchio e dolore che compare mantenendo a lungo una posizione a ginocchio flesso. Nei casi di maggiore gravità, il paziente lamenta “cedimenti” o instabilità del ginocchio, non riesce a praticare adeguatamente sport in carico e può riferire anche la “fuoriuscita” della rotula, incompleta (sublussazione) o completa (lussazione).

L’approfondito esame clinico specialistico è fondamentale per inquadrare correttamente la patologia e deve valutare non solo la condizione del ginocchio, ma di tutto l’arto inferiore (analisi dell’asse biomeccanico e della rotazione del femore, condizione muscolare etc.) e si integra all’acquisizione di specifici esami strumentali quali RX assiali con proiezione rotulea, RMN e TC con scansioni specifiche/protocollo lionese. È importante valutare in modo accurato la patologia monitorando anche la condizione cartilaginea dell’articolazione femoro-rotulea in quanto l’incongruenza od instabilità può produrre in varia misura una usura accelerata della cartilagine.

Il trattamento conservativo (comprensivo di potenziamento e riequilibrio muscolare) porta a risultati positivi anche nei casi di minore gravità, si integra all’utilizzo di terapia fisica nelle fasi acute e si associa anche all’utilizzo di specifiche ginocchiere, che possono portare ad un oggettivo miglioramento della congruenza rotulea e può premettere di praticare attività sportiva. Il “banco di prova” del recupero funzionale è nello sportivo è la completa ripresa dell’attività in assenza di limitazioni funzionali. In alternativa, il trattamento artroscopico varia in rapporto alla gravità e condizione della patologia.

Scoperto un nuovo organo nel corpo umano

fonte: Ansa del 29/03/2018

Rivoluzione in arrivo in anatomia, con la scoperta di un nuovo organo, tra i più grandi del corpo umano: si chiama interstizio e si trova diffuso in tutto l’organismo, sotto la pelle e nei tessuti che rivestono l’apparato digerente, i polmoni, i vasi sanguigni e i muscoli. E’ formato da cavità interconnesse piene di liquido e sostenute da fibre di collagene ed elastina. Agisce come un vero e proprio ammortizzatore, ma la sua presenza potrebbe spiegare anche molti fenomeni biologici come la diffusione dei tumori, l’invecchiamento della pelle, le malattie infiammatorie degenerative e perfino il meccanismo d’azione dell’agopuntura. A indicarlo è lo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports dall’Università di New York e dal Mount Sinai Beth Israel Medical Centre.

interstizioEtichettato per decenni come semplice tessuto connettivo, l’interstizio era rimasto invisibile nella sua complessità a causa dei metodi usati per esaminarlo al microscopio, che lo facevano apparire erroneamente denso e compatto. La sua vera natura è stata invece osservata per la prima volta grazie ad una nuova tecnica di endomicroscopia confocale laser, che consente di vedere al microscopio i tessuti vivi direttamente dentro il corpo, senza doverli prelevare e poi fissare su un vetrino. Impiegata su alcuni pazienti malati di tumore che dovevano essere sottoposti a chirurgia per rimuovere pancreas e dotto biliare, la tecnica ha permesso di osservare la reale struttura dell’interstizio, che è stato poi riconosciuto anche in tutte le altre parti del corpo sottoposte a continui movimenti e pressioni. Alla luce della sua complessità, l’interstizio si è così “meritato” la promozione ad organo.

interstizio 2Questa scoperta ha il potenziale per determinare grandi progressi in medicina, inclusa la possibilità di usare il campionamento del fluido interstiziale come potente strumento diagnostico“, spiega Neil Theise, docente di patologia all’Università di New York. Il continuo movimento di questo fluido potrebbe spiegare perché i tumori che invadono l’interstizio si diffondono più velocemente nel corpo: drenato dal sistema linfatico, questo sistema di cavità interconnesse è la sorgente da cui nasce la linfa, vitale per il funzionamento delle cellule immunitarie che generano l’infiammazione. Inoltre, le cellule che vivono in questi spazi e le fibre di collagene che li sostengono cambiano con il passare degli anni e potrebbero contribuire alla formazione delle rughe, all’irrigidimento delle articolazioni e alla progressione delle malattie infiammatorie legate a fenomeni di sclerosi e fibrosi. Il reticolato di proteine che sostiene l’interstizio, infine, potrebbe generare correnti elettriche quando si piegano, seguendo il movimento di organi e muscoli, e per questo potrebbe giocare un ruolo nelle tecniche di agopuntura.

Faster, noninvasive method to determine the severity of a heart failure

source: this website

tueMethods currently employed to determine the severity of a heart failure are very limited. Researchers at Eindhoven University of Technology and the Catharina Hospital in Eindhoven have therefore developed a method that is very quick, non-invasive, cost-effective and can be performed at the hospital bedside. Moreover, this method appears to have a predictive value for whether or not a double pacemaker will be successful. Researchers Ingeborg Herold and Salvatore Saporito received their doctorates last month for their study.

Heart failure – when the heart is no longer able to pump enough blood through the body – is a very common problem. To get the right treatment, it is important to measure how well the heart is still able to do its job. There are currently various methods for doing this, but all have their limitations. Sensors often need to be placed in the large arteries, via the shoulder or neck, and that is quite an invasive procedure. MRI is a possibility, but not for patients that are seriously ill. Patients that are short of breath nearly always undergo blood analysis, a method that examines the concentration of a particular protein in the blood and provides a very good, patient-friendly indicator, but it takes several hours before the outcome is known.

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The Eindhoven researchers have developed a patient-friendly method that uses an echo scanner, which is known mainly for echoes performed during pregnancy, to determine the severity of heart failure. To do this, they measure the time it takes for the blood to travel from the heart’s right ventricle through the lungs to the left ventricle, which is responsible for pumping oxygenated blood through the body. In order to measure this pulmonary transit time (PTT), they inject harmless microbubbles that can be seen clearly by the echo scanner. They then look at the heart and see how long it takes for the bubbles to get from the right to the left ventricle.

animatedpacemakerIt may seem simple enough but there was a significant scientific challenge in calculating an unequivocal PTT for the observed microbubbles that get dispersed in the blood flow. But once that had been solved, they compared the transit time with a number of existing indicators, developing a similar method on the basis of MRI. Comparisons revealed that the PTT measured with the echo scanner provides an excellent indicator for the severity of a heart failure. A healthy heart pumps the blood quickly through the lungs. The longer the PTT, the less well the heart performs. They examined subjects whose heart muscle no longer contracted well, which is the most common type of heart failure. Before the method can be used, there is still work to be done. For example, if it is to be both practical and fast, the analysis will have to be automated.

Ingeborg Herold gained her doctorate on Thursday 17 November for her thesis “Assessment of cardiopulmonary function by contrast enhanced echocardiography” while Salvatore Saporito received his PhD the same day for his thesis “Cardiovascular MRI quantifications in heart failure“.

Osteoarthritis: some hints

sources: Orthopaedic Research Society and PR Newswire

According to WikipediaOsteoarthritis (OA) is a type of joint disease that results from breakdown of joint cartilage and underlying bone. The most common symptoms are joint pain and stiffness. Initially, symptoms may occur only following exercise, but over time may become constant. Other symptoms may include joint swelling, decreased range of motion, and when the back is affected weakness or numbness of the arms and legs. The most commonly involved joints are those near the ends of the fingers, at the base of the thumb, neck, lower back, knee, and hips. Joints on one side of the body are often more affected than those on the other. Usually the symptoms come on over years. It can affect work and normal daily activities. Unlike other types of arthritis, only the joints are typically affected.

OAOA affects the entire joint, progressively destroying the articular cartilage, including damage to the bone. Patients suffering from OA have decreased mobility as the disease progresses, eventually requiring a joint replacement since cartilage does not heal or regenerate. According to a 2010 Cleveland Clinic study, OA is the most prevalent form of arthritis in the United States, affecting more than 70% of adults between 55 and 78 years of age (that is, millions of people).

My father was in major pain from his osteoarthritis,” explains Riccardo Gottardi, a scientist at the University of Pittsburgh supported by a Ri.MED Foundation fellowship.  “He was in so much pain that he had to undergo a double hip replacement followed by a knee replacement soon afterwards. I could see the debilitating and disabling effects the disease had on him, as he was restricted in his mobility and never fully recovered even after surgery. This was very different from the person that I knew, who had always been active and never shied away from long hours of work in his life – he just could not do it anymore.

For scientists like Gottardi, a key obstacle in understanding the mechanisms of osteoarthritis and finding drugs that could heal cartilage, is that cartilage does not exist separately from the rest of the body. Cartilage interacts with other tissues of the joint, especially with bone. Bone and cartilage strongly influence each other and this needs to be taken into account when developing new drugs and therapies.

cartilageGottardi and a team of researchers at the Center for Cellular and Molecular Engineering, led by Dr. Rocky Tuan, have developed a new generation system to produce engineered cartilage, bone and vasculature, organized in the same manner as they are found in the human joint.  This system is able to produce a high number of identical composite tissues starting from human cells. The team will use this system to study the interactions of cartilage with vascularized bone to identify potential treatments for osteoarthritis. The team’s research has two main objectives: to help understand how cartilage interacts with the other joint tissues, especially bone; and to help develop new effective treatments that could stop or even reverse the disease.  Their patent pending system is the first of its kind, and offers a number of advantages including the use of human cells that replicate native tissues. This system more closely matches the effects on humans than standard animal testing could achieve.

The team of scientists is further developing their system to produce tissues composed of more and different cell types that could better replicate the human joint. They have also started a number of collaborations with other research groups and companies that are interested in using the system to investigate other joint diseases and to test their product. “After seeing what my father went through,” says Gottardi, “I decided that I did not want to just watch by working on diagnostics, but rather, I wanted to be able to do something about osteoarthritis and contribute to the improvement of current treatment options.

Gottardi’s work was recently presented at the Annual Meeting of the Orthopaedic Research Society. Founded in 1954, the Orthopaedic Research Society strives to be the world’s leading forum for the dissemination of new musculoskeletal research findings.

Squat movements: some hints

source: this website

The squat movement can be described as a compound exercise which involves multiple groups of muscles. It is usually performed by recreational and professional athletes to strengthen hip, knee and ankle muscles. The squat exercise consists of two main phases, lowering and standing.

The lowering phase

The body starts from a standing position and, replicating the motion performed while sitting on a chair, it is lowered until the squat configuration is achieved. All the lower limb joints are involved, with several groups of muscles that contract as they lengthen. This results in eccentric contractions.squatL

  • Hip: flexion movement. The hip extensors (gluteus maximus, semimembranosus, semitendinosis and biceps femoris) mainly control the speed of the body, whose lowering is naturally supported by gravity.
  • Knee: flexion movement. The knee extensors (rectus femoris, vastus medialis, vastus intermedius and vastus lateralis) mainly allow to tune the knee bending speed.
  • Ankle: dorsiflexion movement. The plantarflexor muscles (gastrocnemius and soleus) mainly counteract the pull of gravity and provide a stable support on the ground.
The standing phase

squatSThe body leaves the squat configuration and returns to an upright position. The speed of this movement is continuously controlled, as well as the stable support provided by the feet. Once again, this is ensured by the combined action of all the lower limb joints. The same groups of muscles as for the lowering phase now shorten as they contract. This produces concentric contractions.

  • Hip: extension movement. The hip extensors mainly bring the trunk back to an upright position.
  • Knee: extension movement. The knee extensors help contracting and smoothly straightening the knee joints.
  • Ankle: plantarflexion movement. The plantarflexor muscles push down against the ground and are responsible for the overall stability of the body.

 

la Sclerosi Multipla sarà diagnosticata tramite un nuovo tipo di risonanza magnetica

fonte: questo articolo de Il Secolo XIX

(tutti i diritti appartengono all'autore, Nicla Pancera)

La sclerosi multipla (SM) è una malattia autoimmune del sistema nervoso centrale in cui il sistema immunitario colpisce la guaina mielinica che riveste le fibre nervose nel cervello, nel midollo spinale e dei nervi ottici. Con il progredire di questo processo, che causa anche la comparsa di cicatrici (sclerosi), esse vanno via via perdendo la capacità di trasmettere il segnale elettrico agli altri nervi. Può manifestarsi in persone di qualsiasi età e condizione, ha prevalentemente un decorso cronico in cui la malattia progredisce e può determinare gravi invalidità. La SM colpisce 75mila italiani e 2,5 milioni di persone nel mondo.

Lo studio britannico, pubblicato sulla rivista Multiple Sclerosis Journal, rivela che le lesioni cerebrali tipiche della sclerosi multipla (SM) possono essere distinte da lesioni simili, ma dovute ad altre patologie, utilizzando una risonanza magnetica (RM) a 3 tesla (3T) invece che a 7 tesla (7T). Quest’ultima è un’apparecchiatura più potente che permette questa discriminazione in modo agevole ma che è ancora prevalentemente utilizzata solo per scopi di ricerca. Lo studio è stato condotto su un limitato numero di pazienti del dipartimento di neurologia del Nottingham University Hospitals (NHS) Trust: 10 soggetti con SM e 10 soggetti non SM ma con lesioni microangiopatiche nella sostanza bianca cerebrale. Utilizzando particolari sequenze di acquisizione con una RM 3T hanno mostrato che in tutti i pazienti con SM era visibile una vena centrale (lesioni tipiche della malattia) in più del 45% delle lesioni cerebrali, mentre nei pazienti con malattia ischemica dei piccoli vasi era presente una vena centrale in meno del 45% delle lesioni. Applicando la stessa analisi ad un secondo gruppo di pazienti, la discriminazione tra lesioni da SM e non SM è stata, oltre che accurata, anche piuttosto rapida, richiedendo soltanto 2 minuti per soggetto.

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Riuscire a distinguere in questo modo lesioni cerebrali da SM da altre lesioni cerebrali con la RM è quindi fondamentale per la diagnosi nei casi in cui qualche lesione appaia, ma non ne sia chiara la natura. E fare la diagnosi subito e presto è molto importante perchè bisogna cercare di bloccare la malattia il più prima possibile. Ma una risonanza di una certa sensibilità conta soprattutto nei controlli di progressione della malattia, quando si valuta il “carico lesionale“; quando da un controllo all’altro compaiono nuove lesioni, vederle o non vederle, o scambiare una nuova lesione di tipo vascolare con una lesione da SM può far cambiare la terapia. Le immagini RM sono ugualmente importanti anche nel monitoraggio terapeutico, ossia nella valutazione degli effetti delle terapie.

La novità dello studio britannico è l’esser riusciti, pur con una casistica di controlli limitata, a distinguere con grande accuratezza lesioni da SM dalle altre con un’unica sequenza abbattendo i tempi dell’esame pur mantenendo l’accuratezza“, spiega il professor Andrea Falini, Direttore dell’Unità di Neuroradiologia dell’Ospedale San Raffaele e ordinario di Neuroradiologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Falini, insieme al neurologo Massimo Filippi e alla ricercatrice Martina Absinta dell’Unità di Neuroimaging Quantitativo, costituisce uno dei numerosi gruppi di ricerca nel mondo al lavoro su questo.

Ma l’Italia potrebbe non godere pienamente del vantaggio di cui parlano gli autori dello studio, quello cioè di poter eseguire l’esame anche con le RM 3T diffuse negli ospedali senza dover ricorrere a “macchine potenti non disponibili per uso clinico“. Infatti, mentre nel resto del mondo le RM 3T sono ormai da molti anni usate per scopi clinici, in Italia purtroppo l’uso di apparecchiature con un campo magnetico sopra i 2 tesla è autorizzato solo per la ricerca (e la domanda di autorizzazione per l’installazione va richiesta di volta in volta al Ministero della Salute). E questo nonostante vi siano oltre 50 risonanze 3T giá installate negli ospedali italiani e sia già in funzione anche un’apparecchiatura RM 7T a Pisa. E così oggi accade che un neuroradiologo, anche di fronte ad un paziente per la cui patologia potrebbe essere decisivo un tipo di analisi ad alta risoluzione, deve seguire la legge e optare per una macchina a 1,5 tesla oppure limitarsi a studiare i pazienti inclusi in specifici protocolli di ricerca. Insomma, le potenzialità della ricerca rischiano di non poter essere sfruttate nel nostro Paese per via di una burocrazia che non sembra rispondere abbastanza in fretta alle sollecitazioni che provengono dalle evidenze scientifiche.

Chi parla due lingue ha il cervello più forte

fonte: questo articolo de La Repubblica

Passando da un idioma all’altro la mente costruisce una riserva. Che gli permette di adattarsi alla nuova situazione e di recuperare le funzioni cognitive. Lo evidenziano le tecniche di riabilitazione post- ictus

 

Parlare due o più lingue aiuta a riprendersi dopo un ictus. Tutto merito della cosiddetta riserva cognitiva: la capacità del cervello di resistere in situazioni di emergenza. A Hyderabad, oltre l’inglese e l’hindi, si parlano l’urdu e il telugu. L’effetto è un cicaleccio variegato di suoni. A tutto vantaggio del cervello che, passando da un idioma all’altro, rafforza le proprie connessioni cerebrali, le sinapsi. Proteggendosi. Anche dai danni dell’ictus.
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Suvarna Alladi è una neurologa del National Institute of Mental Health and Neurosciences di Bangalore, in India, e ha analizzato le perfomance di recupero post-ictus di oltre 600 pazienti proprio nella città poliglotta Hyderabad, dove in tanti, indipendentemente dal livello di istruzione e dallo stato sociale, parlano due o più lingue. Dei 608 pazienti seguiti per oltre due anni 255 ne parlavano una sola e 353 ne parlavano (almeno) due. Questi ultimi avevano performance di recupero nettamente migliori, e nel complesso quelli che avevano funzioni cognitive normali dopo l’ictus erano circa il doppio. Come se il bilinguismo avesse protetto il cervello dal danno, rendendolo più plastico e in qualche modo più forte.
Quando abbiamo due lingue madre il nostro cervello è più attivo in diverse aree. “È come se la nostra corteccia cerebrale svolgesse più compiti nel passare da una lingua all’altra“, commenta Leandro Provinciali, presidente della Società italiana di neurologia. E, spiegano i ricercatori indiani, l’allenamento rafforza il cervello preparandolo a rispondere meglio a eventuali danni.
Quello che accade, continua Provinciali, è la dimostrazione delle grandissime capacità di plasticità e adattamento del cervello: “Nei bilingue la scelta delle parole si fa in base al contesto in cui ci si trova, pescando dalle risorse che servono al momento. Il cervello si allena a sviluppare queste strategie alternative“. Ovvero, se il contesto cambia, come accade in seguito al danno da ictus, il cervello si adatta a rispondere a una nuova situazione. L’idea è che con le lingue il cervello costruisca un pozzo da cui pescare in caso di emergenza. Una riserva cognitiva. Insomma, quando la benzina finisce l’automobile va in riserva e la macchina continua a camminare. Senza che noi ce ne accorgiamo. Quella cognitiva funziona in maniera pressoché simile: quando le abilità vengono compromesse, per esempio dall’ictus, il cervello ripiega sulla riserva per continuare a mantenere le proprie funzioni. A questa riserva cognitiva serve tutto: dalle lezioni di musica, alla lettura, alle lingue ovviamente, spiegano gli scienziati.
Il recupero dall’ictus è l’ultima scoperta dei neurologi che indagano sul cosiddetto “vantaggio dei bilingui”, che , ad esempio, si associa a un ritardo nella comparsa dei sintomi, e quindi della diagnosi, dell’Alzheimer. Ma, bizzarramente, non migliora le abilità linguistiche, hanno notato Suvarna e colleghi. A conferma che saper passare dall’hindi, all’inglese, all’urdu non aiuta a migliorare la lingua in sé. Aiuta, piuttosto, a far riserva.
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ASU Rehabilitation Robotics Workshop

the 4th ASU Rehabilitation Robotics Workshop will be supported by the Virginia G. Piper Charitable Trust and hosted by Arizona State University

Dates: February 8-9, 2016
Location: Memorial Union, ASU Campus, Tempe

The main theme of this workshop is rehabilitation robotics. However, the workshop will include a wide range of topics aimed at improving quality of life and covering the multidisciplinary field of robotics, including human robot interaction and human motor control. The main goals of the workshop are to discuss the state of handcontrolthe art in rehabilitation robotics and to identify the main challenges in this field.

This workshop is supported by a Piper Health Solutions grant to the School of Biological and Health Systems Engineering at Arizona State University (ASU).

This workshop is open to:

  • Hand_ImageResearchers in the fields of robotics, rehabilitation, assistive devices, and physical human-robot interaction
  • Undergraduate and graduate students in the fields of engineering, medicine, physical rehabilitation, and nursing
  • Clinicians and therapists in neuro-rehabilitation
  • General public

The event is free, however registration is required for admittance to the workshop.

the chairless chair by Noonee

source: L. Seward’s post on this website

Coming out of NCCR Robotics lab, the Bio-Inspired Robotics laboratory at University of Cambridge (previously at ETH Zurich, Switzerland), Noonee® is a revolutionary start-up business aiming to solve healthcare problems within the manufacturing industry. The idea is to provide an exoskeleton that supports the weight of the user only when they feel tired , rather than continuously taking on this weight – meaning that the wearer is using their muscles and actively, rather than passively, sitting.

P8iHDpcWithin the manufacturing industry, keeping employees healthy has been a major concern and challenge for many companies around the world for a long time. Jobs often involve spending long periods of time bending and crouching and as a result can leave staff with substantial back and knee problems. Of 215 million industry sector workers in the EU, a staggering 85 million are reported to suffer from muscle related disorders. Market solutions that are currently available may also pose problems as they limit short term tiredness by taking all the weight of the user, which can lead to muscle weakening. What is needed is a product that can support staff working on production lines while keeping them healthy. The “chair” is not a chair as we know it, but more of an exoskeleton for the legs with a belt to attach it to the hips and straps that wrap around the thighs. The slim structure has joints that allow the wearer to move freely, but when the wearer is in a position they wish to stay in for a long time (e.g. crouching under a car on a production line), this position can be fixed, meaning that the wearer does not need to use the same muscle groups for long periods of time to hold the position. The advantage of such a structure is that it can be worn anywhere and can also be used when standing and walking. This reduces the space required as compared to a traditional chair and reduces the hassle when compared to other solutions, such as chairs that are strapped to the user.

imageThe Chairless Chair® is currently still in prototype and the current version requires the user to fix a position by crouching down into the required position and pushing a button. It is hoped that future iterations of the Chairless Chair® will be actuated to allow the system to become intelligent and understand the intention of the user, allowing it to be fixed into position without any additional input from the wearer.