Vous l’avez sans doute vu passer, nous venons de sortir notre nouveau bouchon sport! L’occasion parfaite de revenir avec vous sur l’ensemble du processus de design industriel chez nous et de vous dévoiler les coulisses de la création d’un produit (en apparence) si anodin 😅
1/Les prémices : on vous demande votre avis
Chez Zeste, dès que nous commençons à travailler sur un produit nous vous interrogeons. C’est systématique. Dans le cas du bouchon sport, nous avons mis en ligne notre sondage en avril 2021 et vous avez été plus de 200 à répondre en nous indiquant un tas de choses intéressantes, parmi celles-ci:
Que vous préféreriez un bouchon pipette plutôt qu’un bouchon qui s’ouvre avec les dents (on a pas trouvé de meilleur nom que celui-là😅)
Que la présence d’un système d’accroche était importante pour vous
Que vous ne vouliez absolument pas de paille à l’intérieur de la bouteille
Que le nettoyage devait être facile
Vos remarques et conseils sous le bras, nous sommes allés voir notre designer partenaire.
2/Le design industriel et prototypage : la phase d’itération
Cette phase de design industriel est cruciale car nous associons généralement notre designer, un partenaire industriel et nous nous faisons la voix de nos futurs clients. Être à trois parties prenantes autour de la table nous permet de bien articuler contraintes industrielles, innovations côté design et demandes utilisateurs. Pour ce nouveau bouchon, une fois vos retours transmis, Marc a commencé à faire des premières esquisses et voici quelques éléments qui ont émergé notamment sur le principe constructif du Bouchon:
Puis est arrivée cette oreille facilitant l’ouverture et la fermeture qui nous a tout de suite plu:
Les plans de ces formes ont été analysés par notre partenaire industriel situé en Normandie qui nous a indiqué quelques réajustements à faire notamment au niveau des joints et de la pipette et nous nous sommes empressés d’imprimer en 3D quelques prototypes pour VOUS les faire manipuler. Cela nous a permis de nous rendre compte que le produit plaisait, que la languette permettant de relever la pipette était trop courte et que le système de fixation (cordon) était du non négociable. Du coup nous avons réimprimé des prototypes et nous vous les avons soumis:
Pour le cordon nous avons hésité entre différentes versions que Marc a eu l’occasion de modéliser:
En parallèle on vous a fait voter pour les couleurs de bouchon préférées 🎨 et voici le résultat de vos votes:
Nous sommes donc partis sur un rose lilas et un jaune curry!
3/La phase finale : industrialisation et qualification
Et la partie industrielle dans tout ça? C’est la même chose, on a réajusté, réajusté, réajusté. Une fois la forme figée il nous a fallu pas mal d’itérations parfois invisibles à l’oeil nu pour garantir une étanchéité parfaite mais aussi un comportement du bouchon jugé satisfaisant:
Ça fait pas mal de tests!
Nous avons également planché en parallèle sur les tests réglementaires notamment d’alimentarité pour bien garantir la bonne conformité de notre produit. À la suite de cela, nous nous sommes dirigés doucement à partir du printemps 2022 vers les pré-séries permettant de vérifier la répétabilité de la production. C’est-à-dire si sur une série plus conséquente (d’une cinquantaine de pièces par exemple) nous arrivions à faire sortir des bouchons identiques de nos moules industriels situés chez notre partenaire industriel 🏭 dans l’Orne. Une fois cela validé nous avons effectué les derniers tests d’étanchéité pour bien tout sécuriser.
Parler de ce process de création et d’industrialisation, des parties prenantes impliquées, des difficultés rencontrées est extrêmement important pour nous car il nous permet de mettre en perspective la complexité inhérente aux produits que nous utilisons au quotidien. Sur ce produit il nous a fallu plus d’une année pour proposer une alternative Made in France 🇫🇷 aux produits du marché. Valoriser les savoir-faire locaux en proposant des produits responsables, durables et indispensables est ce qui nous guide depuis le début. Avec la lancement de ce nouveau bouchon, nous continuons à oeuvrer dans ce sens avec les moyens limités dont nous disposons.
Une fois de plus nous sommes les seuls à proposer un bouchon sport 100% Made in France et nous en sommes fiers!
Cosa faceva esattamente la nostra intelligenza artificiale? Sa, mi vergogno a dirlo, ma non lo so. Chi parla non vuole essere identificato. Ma è uno dei dipendenti di Kellify. Sviluppatore entrato in azienda nel 2021 dopo aver investito nella società 100 mila euro. Un ex dipendente. Perché Kellify, startup fondata a Genova nel 2017 e attiva sulle nuove frontiere dell’intelligenza artificiale, a fine ottobre 2022 ha dichiarato istanza di insolvenza. Troppi debiti. A casa 31 persone. Molte di queste negli anni hanno investito nell’azienda. Convinti, dicono tutti, dal suo fondatore, Francesco Magagnini. Capace di assicurarsi finanziamenti per oltre 4 milioni di euro per sviluppare tecnologie di cui oggi sembrano restare più dubbi che certezze.
Magagnini, secondo i documenti che Italian Tech ha avuto modo di visionare, la scorsa primavera si è dimesso dalla carica di amministratore della società. Poi ha fatto perdere le proprie tracce. Nessun contatto da allora con gli investitori della sua azienda. L’ultima comunicazione è una lettera in cui diceva di stare poco bene. E di essere costretto a fare un passo indietro. Poco dopo l’azienda è fallita. E oggi chi ci ha lavorato, chi ci ha investito, sembra risvegliarsi da un lungo sonno. E accusa: dietro l’azienda c’era altro che marketing e comunicazione. Incolpando in alcuni casi anche la propria miopia.
Chi è Francesco Magagnini, fondatore di Kellify
Genovese, 35 anni, Magagnini negli ultimi 4 è stato un volto piuttosto noto nel panorama delle startup italiane. Tantissime interviste rilasciate, molte ancora reperibili online e su Youtube. Ai giornalisti ha detto negli anni di aver studiato alla Sorbona di Parigi. Di aver conseguito un master a Stanford. Di aver lavorato per multinazionali prima di rientrare a Genova e lanciare la sua startup. Informazioni che non sono verificabili sui siti delle università. Ma a Magagnini, ottimo oratore, si concede un po’ tutto. Anche il curriculum in parola. Italian Tech ha provato a contattarlo diverse volte in queste settimane, senza successo. Vogliono parlare invece i suoi dipendenti. I suoi investitori. Non tutti, ma tutti sotto anonimato. Lo descrivono ancora oggi come come “carismatico”, “magnetico” e “dotato di un’intelligenza superiore”. Doti che gli consentono di convincere tutti.
Anche il Financial Times che, due anni fa, inserisce Kellify tra le migliori startup italiane. Oggi il sospetto di tutti è che dietro le sue parole, dietro la promessa di creare una società in grado di scalare il mercato globale dell’intelligenza artificiale, non ci fosse nulla se non marketing, relazioni con i media e buone referenze. Me lo hanno presentato a Milano, racconta un investitore. Tutti ne parlavano bene. E ci siamo lasciati convincere, anche perché chi ce lo ha presentato è una persona con lunga esperienza nel settore, aggiunge. Anche lui, business angel di diverse startup, preferisce restare anonimo. Abbiamo messo tutti tra tra i 50 e i 200 mila euro. La società lanciava nuovi prodotti. A farli era un fisico, Fabrizio Malfanti, suo socio. Poi ci siamo accorti che qualcosa non andava. I debiti aumentavano. Aumentavano spese per uffici e consulenze. Il giro d’affari no.
I conti di Kellify. I dubbi su consulenze e investimenti
In base ai bilanci che Italian Tech ha potuto leggere, nel 2017 la società ha chiuso con una perdita di 7.040 euro. Nel 2018 le perdite diventano 483.332 euro. Nel 2019 751.712 euro. Nel 2020, ultimo bilancio che Italian Tech ha potuto verificare, le perdite diventano 1,441 milioni, a fronte di ricavi dalle vendite pari a 3.000 euro. Le spese aumentano anno dopo anno. I dipendenti e gli investitori sospettano che tutto ciò che è stato speso sia stato fatto per pagare gli stipendi dei manager (200 mila euro) e le consulenze. La società fa investimenti. Apre spin off. Compra altre società. Inaugura sedi a New York, Malmo, Seul. Nuovi uffici e nuove assunzioni. Annuncia milioni di investimenti. Di poter raggiungere un giro d’affari da 25 milioni entro il 2024. Ogni mossa è accompagnata da un comunicato. Da un’intervista. Intanto i bilanci sono sempre più in rosso.
“Solo marketing e media. Di prodotto c’era pochissimo”
Marketing, faceva molto marketing è la risposta che danno tutti. Alcuni sospettano che facesse “solo” marketing. Riuscito anche bene. Kellify ha vinto premi rivolti alle startup. Il suo amministratore presenza fissa in panel di settore. Ma se si cerca di capire cosa facesse esattamente, cominciano i problemi: Avevamo decine e decine di prodotti. Intelligenza artificiale applicata agli sport, al mercato dell’arte, alle materie prime, al vino, alla pubblicità. Se ne creavano in continuazione. Lavoro in questo settore da molti anni. Conosco la storia di Kellify dall’inizio. All’inizio sono stato investitore. Poi, quando sono diventato dipendente nel 2021, ho capito che di prodotto c’era pochissimo, racconta uno dei primi investitori dell’azienda.
Cosa facesse esattamente Kellify è un mistero. Come lo facesse lo è di più. Una risposta si può cercare nelle interviste di Magagnini ancora reperibili su YouTube. In una descrive in facile eloquio le sue intelligenze artificiali come qualcosa in grado di “percepire il lato emozionale di un’immagine”. Ovvero, ciò che colpisce il fruitore. L’intervistatore chiede un esempio: cosa colpisce la Generazione Z? Vede, l’innovazione data dall’intelligenza artificiale è il non saperlo. Facciamo lavorare gli algoritmi in maniera autonoma. Non sanno se il cavallo o il verde acchiappano di più. Non è qualcosa che riusciamo a sintetizzare in un termine. Agisce a livello neuroscientifico. È un superpotere che diamo in mano alle aziende e ai creativi, risponde. Kellify, nonostante l’enorme copertura mediatica ricevuta, resta un’incognita.
Chi ci ha investito dice che ha tentato di entrare nei radar di alcuni fondi, ma di non aver mai superato la due diligence, la verifica del business offerto fatta dai manager delle società di investimento. In compenso ha raccolto piccole cifre da un gruppo di piccoli e medi investitori. Convinti dalla catena di fiducia che si crea spesso in questo settore. Business angel, family office, ex impiegati di grandi multinazionali che hanno messo nell’azienda la buona uscita e qualche risparmio. Fiducia che oggi molti di loro dicono tradita.
4,7 milioni di investimenti. La promessa di una scalata
L’azienda compare nelle cronache per la prima volta nel 2018. Ottiene 1,73 milioni da diversi investitori. Si presenta all’inizio come una società fintech (tecnologie applicate alla finanza). Dovrebbe essere in grado di capire cosa piace agli utenti, e suggerire il valore futuro di oggetti come macchine e vini pregiati. Secondo Crunchbase, autorevole bussola del mercato delle startup, nei successivi round ne raccoglie altri 3. Credo che quei numeri siano piuttosto gonfiati, conosco tutti quelli che ci hanno messo i soldi, e quanto hanno messo. Dubito che si sia arrivati a quelle cifre, racconta un altro investitore, diventato poi anche dipendente. Fino a una manciata di mesi fa, Magagnini si diceva sicuro del futuro della propria azienda. Pare abbia provato a infondere la sua sicurezza anche ai propri dipendenti. Sorpreso che l’azienda sia fallita? Per niente. Ma mi creda: nessuno di noi lo è. Nessuno di noi ha mai capito quello che stavamo facendo. E tra i dipendenti certe cose si sanno. Magari non si dicono, ma si sanno, commenta un altro dipendente.
Carte in Tribunale. “Ci abbiamo creduto. Poi abbiamo dovuto crederci”
All’inizio ci abbiamo creduto. Eravamo convinti. Poi le cose sono cambiate. Soprattutto dopo qualche mese di lavoro in azienda. Dal crederci davvero, abbiamo cominciato a crederci per forza. Da Kellify dipendevano non solo i nostri stipendi, il sostentamento delle nostre famiglie, ma anche i nostri progetti di vita, i sacrifici degli anni precedenti. Come convincersi della realtà di un’illusione. Entrare in un mondo di finzione, senza nessuna pillola blu per risvegliarsi. Ora le carte sono finite in tribunale. Il sito è stato messo offline. I canali social di Kellify oscurati. Nessun riferimento su LinkedIn. A parte interviste e video, è tutto sparito. Restano le carte. I bilanci. Le acquisizioni e le consulenze. Materiale su cui i giudici liguri cominceranno a lavorare il prossimo mese. Che chiariranno se i dubbi degli investitori sono fondati, o sono frutto di una tardiva voglia di vendetta.
Per la quasi totalità dei climatologi, l’alta concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre è la causa del riscaldamento globale e quindi dei cambiamenti climatici che stiamo sperimentando. Dunque, per contenere l’aumento di temperatura entro i limiti indicati dall’IPCC, è necessario ridurre drasticamente la quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera. Tuttavia, vista la velocità con cui sta aumentando la temperatura media del pianeta, questa soluzione da sola non sembra più sufficiente e se vogliamo sperare di raggiungere gli obiettivi occorre fare di più. Bisogna accelerare, togliendo dall’atmosfera parte dell’anidride carbonica già presente. Per riuscire in questa impresa, alla società irlandese Carbon Collect Ltd. si sono ispirati alla natura, precisamente agli alberi e alla loro capacità di assorbire anidride carbonica dall’aria tramite le foglie. Così hanno sviluppato un dispositivo chiamato MechanicalTree che si propone di diventare una tecnologia di punta per ridurre l’anidride carbonica in atmosfera. Questo “albero” artificiale è una struttura metallica alta circa 10 metri e contiene speciali “piastrelle” in grado di assorbire la CO2, che si estendono e si ritraggono in un ciclo costante di cattura e rigenerazione.
Il primo vantaggio del sistema consiste nel fatto che le future “fattorie” di questi alberi artificiali, per essere efficaci, non hanno bisogno di sorgere in corrispondenza o vicino alle fonti di emissione di CO2 come, ad esempio, una fabbrica o una centrale a carbone. Rispetto a un vero albero naturale, poi, MechanicalTree è fino a mille volte più efficiente nel rimuovere la CO2 dall’aria e la Carbon Collect ha già pianificato di iniziare con installazioni in grado di raccogliere fino a 1000 tonnellate al giorno di CO2. Ma soprattutto, al contrario di altre tecnologie simili, questa non necessita di pompe o sistemi di aspirazione elettrici costosi e a loro volta inquinanti. MechanicalTree, infatti, usa semplicemente il vento per far passare l’aria attraverso il sistema che, in questo modo, diventa una soluzione passiva caratterizzata da bassi costi di esercizio e quindi economicamente praticabile. Ma i vantaggi non finiscono qui perché l’anidride carbonica catturata dal sistema non solo contribuisce a combattere il riscaldamento globale, ma diventa essa stessa una risorsa che può essere venduta e riutilizzata in svariati settori come l’industria alimentare, delle bevande, l’agricoltura o l’energia.
Alla base della tecnologia di MechanicalTree c’è l’intuizione del professore d’ingegneria dell’Arizona State University Klaus Lackner che, nel 1999, fu tra i primi scienziati al mondo a suggerire che è possibile contrastare il riscaldamento globale catturando la CO2 dall’aria. Lackner era convinto che per affrontare il problema fosse necessario immaginare strategie ambiziose e la rimozione della CO2 dall’aria era appunto una di queste. Non a caso egli sosteneva che il suo obiettivo era «prendere un processo che richiede 100.000 anni e comprimerlo in 30 minuti». Per arrivare a questo risultato, però, ci sono voluti ben vent’anni di studi e due di progettazione. L’idea da cui tutto è partito, però, non è stata del professor Lackner ma di sua figlia Claire che doveva partecipare a un concorso di scienze di scuola media. Claire riuscì a dimostrare che si poteva catturare l’anidride carbonica dall’aria facendola reagire con l’idrossido di sodio, semplicemente usando una pompa per acquario. Padre e figlia scoprirono che con quel rudimentale dispositivo si riusciva a catturare addirittura metà dell’anidride carbonica che attraversava una provetta. Questa dimostrazione fruttò a Claire il primo premio al concorso scolastico e spinse il padre a iniziare una ricerca che ha portato a un dispositivo potenzialmente in grado di rivoluzionare il modo in cui affrontiamo la lotta ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale.
Opuestos a los perfiles de especialistas que se sienten realizados siguiendo una carrera lineal, los multipotenciales son “los demás”. Aquellos que no encajan en ninguna categoría o que podrían encajar en todas. Un poco comerciales, un poco RR. HH., un poco community managers… e incluso un poco profesores de yoga en su tiempo libre. Se trata de personas generalistas. Sin embargo, puesto que el sistema tradicional se basa principalmente en el modelo de carreras especializadas, a estos perfiles no se les reconoce todavía su justo valor. Hay ocho señales que te permitirán saber si tu perfil encaja con el de esas personas.
1. Aprender, descubrir… tu curiosidad no tiene fin.Cuando eras más joven, ¿pasabas de una afición a otra (o te apetecía hacerlo), como el tenis, la natación, la guitarra, el dibujo, etc., hasta que se agotaba tu interés y te interesabas por otra cosa? Este es un clásico de la personalidad multipotencial. Si tú lo eres, seguramente no tienes ni vocación ni predilecciones. Lo que te estimula es, sobre todo, seguir fiel a tu compañera: la curiosidad. Y es probable que esta se haya manifestado en una etapa muy temprana de tu vida, en la infancia, bajo forma de ganas de descubrir, aprender y experimentar muchísimas cosas distintas. Las personas multipotencial son, en cierto modo, los Indiana Jones del mundo laboral. Por lo tanto, si te gusta explorar nuevos horizontes, puede que seas multipotencial.
2. Elegir un camino significa renunciar a otros. Viajemos en el tiempo, a cuando estabas en bachillerato. Más concretamente, el momento de elegir un itinerario. Aunque esto puede ser un simple formalismo para algunas personas, para los multipotenciales convertirse en un auténtico rompecabezas, ya que, para ellos, escoger una única vía implica renunciar al resto. ¿Cómo elegir un camino cuando hay tantas cosas que te interesan? Y, después de todo, ¿por qué elegir? La sociedad nos ha condicionado para seguir un modelo lineal de carrera basado en la especialización. En resumidas cuentas, elegir un itinerario, especializarse, obtener un primer empleo y desarrollar una carrera en ese ámbito durante los próximos 40 años. Es el patrón clásico. Así pues, puede que hayas intentado entrar en ese molde y te hayas encerrado en un sector o en una profesión. ¿El resultado no ha sido del todo positivo? Supongo que, desde fuera, te muestras realizado y te tranquilizas a ti mismo diciéndote que tienes un empleo, un salario y un estatus social cómodos (¡lo cual no es poco!). Pero por dentro, ¿sigues oyendo esa voz que te repite que te estás ahogando en esa casilla y que es hora de emprender nuevas aventuras profesionales? En ese caso, es muy probable que seas un multipotencial sin saberlo.
3. ¡Me sigo aburriendo! Para las personas multipotenciales, el aburrimiento no se limita a los conocidos como bullshit jobs. Cuando empiezas en un nuevo trabajo, ¿te parece todo siempre idílico pero terminas rápidamente desencantado? Nuevos objetivos, nuevos proyectos, nuevo entorno, nuevos compañeros, nuevos temas, etc. ¿Empezar un trabajo es siempre un momento emocionante para ti, hasta que el aburrimiento, tu “eterno” compañero de viaje, llega para quedarse? Por lo general, se manifiesta cada dos o tres años. Comienza con pensamientos recurrentes del tipo “¿Pero para qué sirve esta reunión?”, “De todas formas, ya no aprendo nada nuevo” o “Ahora que la empresa funciona sola, ¿qué voy a hacer?”. Poco a poco, esos pensamientos dan lugar a un desánimo crónico que te resta las fuerzas para levantarte por las mañanas o hace que cuentes los días que quedan para poder desconectar el fin de semana. A largo plazo, pierdes toda motivación y crees que tu trabajo ya no tiene sentido. Y si la situación perdura, terminas incluso por dudar de tu valor, al tiempo que mengua tu confianza.
4. La gente cree que nunca estoy satisfecho con nada. En la mente de la mayor parte de trabajadores, escoger un sector y desarrollar una carrera es una señal de estabilidad y seguridad. Por lo tanto, cambiar de empleo varias veces puede dar lugar a comentarios incluso desagradables. Las personas multipotenciales que asumen que lo son saben muy bien lo siguiente: cambiar de empleo siempre conlleva un comentario cargado de juicio por parte del entorno. ¿Tienes la impresión de que la gente piensa que nunca estás satisfecho con nada? O peor aún, ¿de ser el alma errante de tu familia o grupo de amigos? Asimismo, si tienes una trayectoria profesional variada, seguro que en las entrevistas de trabajo has tenido que escuchar la clásica frase (de forma más o menos explícita) “Has cambiado de empleo a menudo, ¿quién me dice que no nos vas a dejar en un año?”. Pero tal vez sea puro azar.
5. Quiero una vida con varias vidas. Ante la pregunta “¿Si tuvieras cinco vidas, en qué te gustaría trabajar?”, ¿responderías que no querrías tener cinco empleos en cinco vidas, sino cinco empleos en una sola vida? ¿No sueñas con el Santo Grial que representa el contrato indefinido sino que más bien lo percibes como una “cárcel” de oro? Las personas que te inspiran se han reinventado muchísimas veces y han explorado mil y un ámbitos, como ese chico que, con apenas 40 años, ya ha tenido una gran vida profesional, habiendo sido abogado, escritor y finalmente empresario del sector de la restauración.
6. Me gusta tocar varios palos. En el mundo laboral, hace falta de todo. Hay personas que prefieren especializarse y ocupar un puesto en un ámbito determinado. ¿Este no es tu caso? Un poco de derecho, una pizca de marketing, una cucharadita de formación, todo ello espolvoreado con un poco de management de equipo. ¿Podría ser esta la “receta” del empleo de tus sueños? Puede que no seas un experto, pero ¿qué más da? En ese caso, lo que seguramente te atrae son los empleos polivalentes o generalistas que te permitan hacer de todo y desarrollar tareas transversales. Tener un empleo con una rutina en el que los días sean todos iguales es algo que, para las personas multipotenciales, provoca un “Gracias, pero no”.
7. ¿Quieres ideas? ¡Toma ideas! Si despiertas envidia, ¿es normalmente porque tienes muchas ideas? ¿El proceso de generar ideas te parece natural porque tu curiosidad y tu espíritu de explorador te han conducido a llevar la reflexión siempre un paso más allá, comprender tu entorno, profundizar tus conocimientos y experimentar cosas nuevas? De hecho, te sueles plantear preguntas que comienzan por un “por qué” en tu día a día y consigues conectar dos ideas o temas para dar con soluciones innovadoras. Esta manera de razonar muestra que empleas un modo de pensamiento “divergente”. ¿No te suena el término? Las nociones de pensamiento divergente y convergente las planteó el psicólogo J.P. Guilford en la década de los 50 del siglo pasado. Nuestro sistema educativo da prioridad principalmente al pensamiento convergente, que consiste en aplicar reglas y procesos estructurados para lograr una solución. Dicho de otra manera, el profesor expone un problema y nos da las reglas para llegar a una única solución. Por el contrario, el pensamiento divergente relaciona dos temas que no están vinculados entre ellos y, gracias a las conexiones cerebrales, se produce la magia. Al razonar por analogía, salimos del sendero marcado para buscar la inspiración y la solución fuera, en otro ámbito. A menudo, es así como surgen las ideas innovadoras originales.
8. Sí al cambio. ¿Tu empresa desea cambiar de rumbo estratégico o tu empleo cambia, por lo que vas a tener que formarte y adquirir nuevas habilidades, y todo eso no te da miedo? Al cambiar con regularidad de empresa, sector o empleo, ¿has desarrollado una flexibilidad que resiste a todo? O si todavía no has dado el gran salto, quizás tu vida privada sea un magnífico tablero de juego, puesto que tienes varias aficiones y cambias constantemente, con lo cual has desarrollado una gran capacidad de adaptación. En aquellas situaciones en que la mayoría de personas se muestran reticentes a modificar sus hábitos, ¿eres tú el camaleón del mundo laboral que se adapta a cualquier cambio, ya sea organizativo, técnico o de entorno? ¡Esta es otra de las principales características de las personas multipotencial.
¿Y bien? ¿Te has sentido identificado? De ser así, ten en cuenta que, aunque la especialización sigue siendo la norma, la tendencia está cambiando. Las empresas se enfrentan a desafíos externos (sociales, medioambientales, etc.) e internos (progreso técnico y tecnológico, motivación y gestión del talento, etc.) que les exigen replantearse constantemente su organización, sus prácticas, su estrategia y sus formas de trabajar. Y para ello, necesitan empleados innovadores, ágiles y dispuestos a adquirir nuevas habilidades con frecuencia. En resumen, ¡todo lo que te caracteriza como multipotencial!
Fabbriche di elettrodomestici, mobili, alimentari, automobili, a singhiozzo si stanno fermando tutte. Proprio ora che riparte la domanda. La questione è che pressoché tutte le materie prime sono diventate introvabili e costosissime. Gli inglesi la chiamano everything bubble: la bolla sui prezzi di qualunque cosa. Per un Paese trasformatore come l’Italia, che deve importare quasi tutto, sta diventando un problema serio. Quanto sta accadendo è il risultato di tre fattori che si sommano: reali, finanziari e logistici.
Partiamo da quelli reali. Nei primi mesi della pandemia i valori dei prezzi delle materie prime sono crollati del 20-30%. La Cina, che ha un’economia pianificata, ne ha subito approfittato per fare scorte, avvantaggiata anche dal fatto di essere ripartita con quattro mesi di anticipo. Ma subito dopo i prezzi hanno ricominciato a salire, e ora sono alle stelle, perché tutti i Paesi sono ripartiti di scatto, con i magazzini di ogni continente vuoti per colpa dell’organizzazione just in time (le imprese si sono abituate, per essere più efficienti, a non accumulare scorte) e, quindi, adesso vanno riempiti da zero. Poi ci sono cause che hanno a che fare con i mercati finanziari. Le materie prime sono diventate un investimento interessante perché sono prezzate in dollari, moneta debole in questo momento, quindi sono convenienti per chi le acquista in euro o altre valute. Inoltre: investire in titoli di Stato dà rendimenti bassissimi, quindi tanto vale mettere soldi in materie prime e sui titoli derivati a esse legati. A tutto questo bisogna aggiungere gli aspetti logistici come l’aumento a dismisura dei costi di trasporto. Il Dry Baltic Index, indice che sintetizza gli oneri di nolo marittimo per prodotti secchi e sfusi (minerali, cereali, eccetera), ha registrato nell’ultimo anno un +605%. Tra le cause anche l’introduzione del nuovo regolamento approvato dall’Organizzazione marittima internazionale che impone a tutte le navi di abbassare la quota di zolfo nell’olio combustibile: dal 3,5% (massa per massa) dal gennaio 2020 si passati allo 0,5%. Questo cambiamento ha comportato la rottamazione di parte delle navi e revamping di altre, anche per le navi portacontainer e portarinfuse che trasportano merci dalle Americhe, dall’Africa, dall’Asia e dall’Australia, e il costo si è scaricato sui prezzi.
Ci sono alcune materie prime necessarie in quantità mai utilizzate finora, perché sono indispensabili alle due rivoluzioni in corso nel sistema produttivo: la transizione green e quella digitale. Parliamo di rame, litio, silicio, cobalto, terre rare, nickel, stagno, zinco. I più lungimiranti sono stati i cinesi. A casa loro sono grandi estrattori di rame, litio, terre rare. E quello che gli manca se lo vanno prendere nei Paesi produttori: il nichel nelle Filippine e in Indonesia, in Congo possiedono le principali miniere di cobalto. Minerali che poi trasformano direttamente nella madre patria. Secondo Benchmark Mineral Intelligence, società di analisi britannica, l’80% dei materiali grezzi necessari per la costruzione delle batterie agli ioni di litio proviene da aziende cinesi. Per l’approvvigionamento di terre rare dipendiamo dalla Cina per il 98%, idem per il borato dalla Turchia, dal Sud Africa per il 71% del fabbisogno di platino. Secondo le stime della Commissione, per le batterie dei veicoli elettrici e lo stoccaggio dell’energia nel 2030 l’Ue avrà bisogno di un approvvigionamento di litio fino a 18 volte superiore a quello attuale, e 5 volte di cobalto. Quantità che triplicheranno nel 2050, mentre decuplicherà la domanda di terre rare utilizzate nei magneti permanenti (veicoli elettrici, tecnologie digitali, generatori eolici).
Con vent’anni di ritardo rispetto alla Cina, lo scorso ottobre l’Unione Europea ha costituito l’Alleanza per le materie prime. La strategia è quella di diventare più autonomi puntando su tre obiettivi:
1: favorire l’attività estrattiva dei metalli presenti sul territorio europeo utilizzando tecnologie avanzate. La domanda di litio, per esempio, può essere soddisfatta internamente per l’80% entro il 2025. Oggi i metalli strategici estratti in Europa, come il litio, vengono poi trasformati principalmente in Cina. Il processo di lavorazione andrà invece sviluppato rapidamente a casa nostra. Sono stati creati sei centri d’innovazione, di cui uno a Roma, con lo scopo di implementare il settore creando partnership tra imprese e tra imprese e università. In Italia abbiamo un po’ di cobalto in Sardegna e a Punta Corna, in Piemonte, dove si trova anche il nichel; mentre a Gorco, in provincia di Bergamo, c’è lo zinco. Certo, si tratta di attività invasive. Ma andrà deciso una volta per tutte se lasciarle nelle mani di Paesi che, oltre a renderci dipendenti economicamente ed esposti ai ricatti dei prezzi, hanno regole meno rigorose delle nostre e utilizzano tecnologie più inquinanti.
2: potenziare l’attività di riciclo dei metalli pregiati. Abbiamo dimostrato di saperlo fare con carta e alluminio, ma non con i rifiuti elettronici, a partire dalle batterie dei cellulari. Per quel che riguarda il riciclo delle batterie, mandiamo il grosso in Cina, che ormai domina il mercato mondiale, e la paghiamo svolgere questo tipo di attività. Poi dalla Cina compriamo le batterie nuove e buonanotte. Un minerale strategico è il cobalto. Dai dati dello European Institute of Innovation Tecnology Rowmaterials: l’Ue paga per importarne 40.000 tonnellate ogni anno, la metà finiscono in prodotti che restano all’interno della Ue, dove il riciclo a fine vita però è minimo, quando invece una percentuale che può sfiorare il 50% è recuperabile. Inoltre andiamo a buttare migliaia di tonnellate di computer e telefonini usati nelle discariche di casa nostra e in Africa. Un comportamento irresponsabile che, da un lato, provoca un inquinamento gigantesco e, dall’altro, deturpa l’ambiente perché rende necessario estrarre nuovo cobalto. Per questo si dovrà puntare su filiere di raccolta, stoccaggio e riciclo, che oggi mancano completamente.
3: costruire una politica estera e industriale comune per ottenere le concessioni dei minerali che non abbiamo. Sicomines, un consorzio di società statali cinesi, nel 2008 ha firmato un accordo con il Congo per diritti di estrazione di rame e cobalto fino al 2033, per un valore stimato in 84 miliardi di dollari. In cambio si è impegnata a investire 6 miliardi di dollari nelle infrastrutture del Paese e circa 3 miliardi nel settore minerario. Da anni in quelle miniere è scandalosamente sfruttato il lavoro dei bambini, provocando l’indignazione di mezzo mondo. Offrire condizioni migliori non è solo una necessità. È un dovere.
In probability theory, the birthday problem or birthday paradox concerns the probability that, in a set of n randomly chosen people, some pair of them will have the same birthday. In a group of 23 people, the probability of a shared birthday exceeds 50%, while a group of 70 has a 99.9% chance of a shared birthday. (By the pigeonhole principle, the probability reaches 100% when the number of people reaches 367, since there are only 366 possible birthdays, including February 29)
These conclusions are based on the assumption that each day of the year is equally probable for a birthday. Actual birth records show that different numbers of people are born on different days. In this case, it can be shown that the number of people required to reach the 50% threshold is 23 or fewer.
The birthday problem is a veridical paradox: a proposition that at first appears counterintuitive, but is in fact true. While it may seem surprising that only 23 individuals are required to reach a 50% probability of a shared birthday, this result is made more intuitive by considering that the comparisons of birthdays will be made between every possible pair of individuals. With 23 individuals, there are (23 × 22) / 2 = 253 pairs to consider, which is well over half the number of days in a year (182.5 or 183).
Real-world applications for the birthday problem include a cryptographic attack called the birthday attack, which uses this probabilistic model to reduce the complexity of finding a collision for a hash function, as well as calculating the approximate risk of a hash collision existing within the hashes of a given size of population.
The history of the problem is obscure. The result has been attributed to Harold Davenport; however, a version of what is considered today to be the birthday problem was proposed earlier by Richard von Mises.
Anyone with an Oculus or Vive VR system can better navigate the virtual world with their hands. Leap Motion shows off the tech improvements to Orion in a trio of new demos: Cat Explorer, Particles, and Paint.
Cat Explorer lets you inspect the interior of a disturbingly forlorn-looking feline in VR. You can run your fingers over its exposed ribs, remove the animal’s skin to look at its muscle structure, or even deconstruct the kitty, poking and prodding each individual bone and organ.
In the Particles demo, you can play around with tiny spheres, adjusting their reactions to one another to explore different concepts in physics.
The Paint demo is pretty much what you’d expect — it lets you use your hands to create a three-dimensional composition. Just don’t get too upset if your creation looks more like something that would come from Microsoft Paint than the colorful, well-rendered animals and plants featured in the demo video.
Amateur de plongée et de planche à voile depuis son plus jeune âge, Nicolas Carlési, 33 ans, a longtemps cherché à mettre ses compétences d’ingénieur au profit de l’environnement. Il se souvient combien ça l’agaçait, lorsqu’il partait en vacances en Sicile, de nager dans les déchets aux abords des petits ports. C’est pourquoi, il y a quatre ans, il s’est dit qu’il serait judicieux de collecter les déchets en surface avant qu’ils se diluent en mer.
Renseignement pris, le jeune homme comprend que 99 % des ports nettoient leurs eaux avec des épuisettes. Un instrument peu efficace, d’où l’idée d’inventer un petit robot, relève le jeune entrepreneur, titulaire d’un doctorat en robotique sous-marine. Il lui faudra une année et 90 000 € pour concevoir et fabriquer un premier prototype. Depuis, le Jellyfishbot a fait du chemin et conquis des ports aux quatre coins du monde.
Ce mini-robot, qui a la forme d’un catamaran, fonctionne grâce à deux batteries électriques qui alimentent trois propulseurs. De quoi tracter un filet et, ainsi, récolter trente à quarante litres de déchets, aussi bien des bouteilles en plastique que des hydrocarbures et des mégots. Il fallait trouver le système le plus compact possible pour aller chercher les déchets là où ils sont difficilement atteignables , raconte le fondateur de Iadys. Fabriqué dans les ateliers de la société basée à Roquefort-la-Bédoule (Bouches-du-Rhône), le Jellyfishbot peut être équipé avec des filets de différentes tailles.
Jusqu’à 180 microns pour une utilisation scientifique , précise Nicolas Carlési, qui conçoit ces équipements à partir de filets de pêche usagés et d’ailes de voiliers et de kitesurf. Le port de Cassis est le premier à expérimenter le Jellyfishbot, en juin 2018. Suivront, la même année, celui de Cannes et le parc naturel marin de Mayotte. En 2019, l’entreprise convainc une quinzaine de ports français et étrangers, en Asie notamment. Et souhaite poursuivre son développement à l’international, notamment aux États-Unis où l’on compte 12 000 marinas .
La société revoit cependant ses objectifs à la baisse, crise du coronavirus oblige.Nos commandes ont ralenti, certaines discussions en cours n’aboutiront que quand la crise sera terminée. En attendant, Iadys continue sa levée de fonds de 1,5 million d’euros. Une somme destinée à poursuivre le développement commercial de l’entreprise et les investissements en recherche et développement pour mettre au point un nouveau robot capable de fonctionner en flottille, explique Nicolas Carlési. Dans un port de plaisance comme celui de Marseille, un seul robot ne suffit pas, il en faut plusieurs, capables d’agir de manière coordonnée.L’entreprise teste également une version capable de détecter tous types d’obstacles de manière autonome afin de faire du Jellyfishbot un outil polyvalent en capacité d’assister le personnel portuaire aussi bien pour le nettoyage que l’inspection des pontons et le placement des plaisanciers.
De quoi prendre conscience du chemin parcouru et des difficultés à venir. S’il y a encore quelques semaines, Nicolas Carlési et ses six salariés espéraient cette année doubler le chiffre d’affaires de l’entreprise (200 000 € en 2019), le jeune entrepreneur refuse désormais d’avancer un quelconque objectif chiffré.
Consultant Sidney Yoshida produced this study called ‘The Iceberg of Ignorance‘ in 1989. Yoshida revealed what he saw in the work and leadership habits of Japanese car manufacturer, Calsonic.
How much do we know, what is going on within our organisation? Is it even possible to know all? But if we do not know all, how do we know if we are resolving the right challenges? If executives are continuously impatient and do not ask how they can help, will it really help to resolve Problems in a quality way?
Can engagement within an organization help to resolve challenges on every layer of the organisation? But what about the silo’s within the organization? Fixing a problem in one part of the organisation, but creating an other somewhere else?
Technology opportunities are happening faster and faster, more and more we have to be ready to make changes and adapt. How are you and your teams adopting change?
In line with their mission to create a better and healthier world, Materialisedesigned a hands-free 3D-printed door opener. This is intended to help minimize the unavoidable daily task of opening and closing doors and ultimately decrease the spread of germs like the coronavirus.
The design file is free for anyone to download on Materialise official website, making it possible to 3D print locally at factories around the world. On theMaterialise online shop it is also possible to order a pack of four with screws included.
“You can reduce the spread of germs during your daily tasks easily just by fastening the openers to your door handles.Help do your part to minimize risky contact and make a positive change!“
In order to make this solution available to as many as possible, Materialise are introducing additional designs, including openers that fit door handles of various shapes and sizes as well as options that are smaller and therefore more affordableto print. Materialise’s Design and Engineering team is continuing to work on more variations, so check back regularly to find more models.