un exemple d’industrialisation

full credits: Zeste

Vous l’avez sans doute vu passer, nous venons de sortir notre nouveau bouchon sport! L’occasion parfaite de revenir avec vous sur l’ensemble du processus de design industriel chez nous et de vous dévoiler les coulisses de la création d’un produit (en apparence) si anodin 😅

1/Les prémices : on vous demande votre avis

Chez Zeste, dès que nous commençons à travailler sur un produit nous vous interrogeons. C’est systématique. Dans le cas du bouchon sport, nous avons mis en ligne notre sondage en avril 2021 et vous avez été plus de 200 à répondre en nous indiquant un tas de choses intéressantes, parmi celles-ci: 

  • Que vous préféreriez un bouchon pipette plutôt qu’un bouchon qui s’ouvre avec les dents (on a pas trouvé de meilleur nom que celui-là😅)
  • Que la présence d’un système d’accroche était importante pour vous 
  • Que vous ne vouliez absolument pas de paille à l’intérieur de la bouteille
  • Que le nettoyage devait être facile 

Vos remarques et conseils sous le bras, nous sommes allés voir notre designer partenaire.

2/Le design industriel et prototypage : la phase d’itération

Cette phase de design industriel est cruciale car nous associons généralement notre designer, un partenaire industriel et nous nous faisons la voix de nos futurs clients. Être à trois parties prenantes autour de la table nous permet de bien articuler contraintes industrielles, innovations côté design et demandes utilisateurs. Pour ce nouveau bouchon, une fois vos retours transmis, Marc a commencé à faire des premières esquisses et voici quelques éléments qui ont émergé notamment sur le principe constructif du Bouchon: 

pipette et joints déconstruits bouchon made in france

Puis est arrivée cette oreille facilitant l’ouverture et la fermeture qui nous a tout de suite plu: 

bouchon sport oreille made in france zeste

Les plans de ces formes ont été analysés par notre partenaire industriel situé en Normandie qui nous a indiqué quelques réajustements à faire notamment au niveau des joints et de la pipette et nous nous sommes empressés d’imprimer en 3D quelques prototypes pour VOUS les faire manipuler. Cela nous a permis de nous rendre compte que le produit plaisait, que la languette permettant de relever la pipette était trop courte et que le système de fixation (cordon) était du non négociable. Du coup nous avons réimprimé des prototypes et nous vous les avons soumis: 

prototypage bouchons sport zeste

Pour le cordon nous avons hésité entre différentes versions que Marc a eu l’occasion de modéliser: 

bouchon piercing oreille sport made in france

En parallèle on vous a fait voter pour les couleurs de bouchon préférées 🎨 et voici le résultat de vos votes: 

sondage bouchon sport Zeste

Nous sommes donc partis sur un rose lilas et un jaune curry!

3/La phase finale : industrialisation et qualification

Et la partie industrielle dans tout ça? C’est la même chose, on a réajusté, réajusté, réajusté. Une fois la forme figée il nous a fallu pas mal d’itérations parfois invisibles à l’oeil nu pour garantir une étanchéité parfaite mais aussi un comportement du bouchon jugé satisfaisant:

Itération designs gourde bouchon sport

Ça fait pas mal de tests! 

Nous avons également planché en parallèle sur les tests réglementaires notamment d’alimentarité pour bien garantir la bonne conformité de notre produit. À la suite de cela, nous nous sommes dirigés doucement à partir du printemps 2022 vers les pré-séries permettant de vérifier la répétabilité de la production. C’est-à-dire si sur une série plus conséquente (d’une cinquantaine de pièces par exemple) nous arrivions à faire sortir des bouchons identiques de nos moules industriels situés chez notre partenaire industriel 🏭 dans l’Orne. Une fois cela validé nous avons effectué les derniers tests d’étanchéité pour bien tout sécuriser.

Parler de ce process de création et d’industrialisation, des parties prenantes impliquées, des difficultés rencontrées est extrêmement important pour nous car il nous permet de mettre en perspective la complexité inhérente aux produits que nous utilisons au quotidien. Sur ce produit il nous a fallu plus d’une année pour proposer une alternative Made in France 🇫🇷 aux produits du marché. Valoriser les savoir-faire locaux en proposant des produits responsables, durables et indispensables est ce qui nous guide depuis le début. Avec la lancement de ce nouveau bouchon, nous continuons à oeuvrer dans ce sens avec les moyens limités dont nous disposons.

Une fois de plus nous sommes les seuls à proposer un bouchon sport 100% Made in France et nous en sommes fiers!

case study – Kellify

full credits: Arcangelo Rociola

Cosa faceva esattamente la nostra intelligenza artificiale? Sa, mi vergogno a dirlo, ma non lo so. Chi parla non vuole essere identificato. Ma è uno dei dipendenti di Kellify. Sviluppatore entrato in azienda nel 2021 dopo aver investito nella società 100 mila euro. Un ex dipendente. Perché Kellify, startup fondata a Genova nel 2017 e attiva sulle nuove frontiere dell’intelligenza artificiale, a fine ottobre 2022 ha dichiarato istanza di insolvenza. Troppi debiti. A casa 31 persone. Molte di queste negli anni hanno investito nell’azienda. Convinti, dicono tutti, dal suo fondatore, Francesco Magagnini. Capace di assicurarsi finanziamenti per oltre 4 milioni di euro per sviluppare tecnologie di cui oggi sembrano restare più dubbi che certezze.

Magagnini, secondo i documenti che Italian Tech ha avuto modo di visionare, la scorsa primavera si è dimesso dalla carica di amministratore della società. Poi ha fatto perdere le proprie tracce. Nessun contatto da allora con gli investitori della sua azienda. L’ultima comunicazione è una lettera in cui diceva di stare poco bene. E di essere costretto a fare un passo indietro. Poco dopo l’azienda è fallita. E oggi chi ci ha lavorato, chi ci ha investito, sembra risvegliarsi da un lungo sonno. E accusa: dietro l’azienda c’era altro che marketing e comunicazione. Incolpando in alcuni casi anche la propria miopia.

Chi è Francesco Magagnini, fondatore di Kellify

Genovese, 35 anni, Magagnini negli ultimi 4 è stato un volto piuttosto noto nel panorama delle startup italiane. Tantissime interviste rilasciate, molte ancora reperibili online e su Youtube. Ai giornalisti ha detto negli anni di aver studiato alla Sorbona di Parigi. Di aver conseguito un master a Stanford. Di aver lavorato per multinazionali prima di rientrare a Genova e lanciare la sua startup. Informazioni che non sono verificabili sui siti delle università. Ma a Magagnini, ottimo oratore, si concede un po’ tutto. Anche il curriculum in parola. Italian Tech ha provato a contattarlo diverse volte in queste settimane, senza successo. Vogliono parlare invece i suoi dipendenti. I suoi investitori. Non tutti, ma tutti sotto anonimato. Lo descrivono ancora oggi come come “carismatico”, “magnetico” e “dotato di un’intelligenza superiore”. Doti che gli consentono di convincere tutti.

Anche il Financial Times che, due anni fa, inserisce Kellify tra le migliori startup italiane. Oggi il sospetto di tutti è che dietro le sue parole, dietro la promessa di creare una società in grado di scalare il mercato globale dell’intelligenza artificiale, non ci fosse nulla se non marketing, relazioni con i media e buone referenze. Me lo hanno presentato a Milano, racconta un investitore. Tutti ne parlavano bene. E ci siamo lasciati convincere, anche perché chi ce lo ha presentato è una persona con lunga esperienza nel settore, aggiunge. Anche lui, business angel di diverse startup, preferisce restare anonimo. Abbiamo messo tutti tra tra i 50 e i 200 mila euro. La società lanciava nuovi prodotti. A farli era un fisico, Fabrizio Malfanti, suo socio. Poi ci siamo accorti che qualcosa non andava. I debiti aumentavano. Aumentavano spese per uffici e consulenze. Il giro d’affari no.

I conti di Kellify. I dubbi su consulenze e investimenti

In base ai bilanci che Italian Tech ha potuto leggere, nel 2017 la società ha chiuso con una perdita di 7.040 euro. Nel 2018 le perdite diventano 483.332 euro. Nel 2019 751.712 euro. Nel 2020, ultimo bilancio che Italian Tech ha potuto verificare, le perdite diventano 1,441 milioni, a fronte di ricavi dalle vendite pari a 3.000 euro. Le spese aumentano anno dopo anno. I dipendenti e gli investitori sospettano che tutto ciò che è stato speso sia stato fatto per pagare gli stipendi dei manager (200 mila euro) e le consulenze. La società fa investimenti. Apre spin off. Compra altre società. Inaugura sedi a New York, Malmo, Seul. Nuovi uffici e nuove assunzioni. Annuncia milioni di investimenti. Di poter raggiungere un giro d’affari da 25 milioni entro il 2024. Ogni mossa è accompagnata da un comunicato. Da un’intervista. Intanto i bilanci sono sempre più in rosso.

“Solo marketing e media. Di prodotto c’era pochissimo”

Marketing, faceva molto marketing è la risposta che danno tutti. Alcuni sospettano che facesse “solo” marketing. Riuscito anche bene. Kellify ha vinto premi rivolti alle startup. Il suo amministratore presenza fissa in panel di settore. Ma se si cerca di capire cosa facesse esattamente, cominciano i problemi: Avevamo decine e decine di prodotti. Intelligenza artificiale applicata agli sport, al mercato dell’arte, alle materie prime, al vino, alla pubblicità. Se ne creavano in continuazione. Lavoro in questo settore da molti anni. Conosco la storia di Kellify dall’inizio. All’inizio sono stato investitore. Poi, quando sono diventato dipendente nel 2021, ho capito che di prodotto c’era pochissimo, racconta uno dei primi investitori dell’azienda.

Cosa facesse esattamente Kellify è un mistero. Come lo facesse lo è di più. Una risposta si può cercare nelle interviste di Magagnini ancora reperibili su YouTube. In una descrive in facile eloquio le sue intelligenze artificiali come qualcosa in grado di “percepire il lato emozionale di un’immagine”. Ovvero, ciò che colpisce il fruitore. L’intervistatore chiede un esempio: cosa colpisce la Generazione Z? Vede, l’innovazione data dall’intelligenza artificiale è il non saperlo. Facciamo lavorare gli algoritmi in maniera autonoma. Non sanno se il cavallo o il verde acchiappano di più. Non è qualcosa che riusciamo a sintetizzare in un termine. Agisce a livello neuroscientifico. È un superpotere che diamo in mano alle aziende e ai creativi, risponde. Kellify, nonostante l’enorme copertura mediatica ricevuta, resta un’incognita.

Chi ci ha investito dice che ha tentato di entrare nei radar di alcuni fondi, ma di non aver mai superato la due diligence, la verifica del business offerto fatta dai manager delle società di investimento. In compenso ha raccolto piccole cifre da un gruppo di piccoli e medi investitori. Convinti dalla catena di fiducia che si crea spesso in questo settore. Business angel, family office, ex impiegati di grandi multinazionali che hanno messo nell’azienda la buona uscita e qualche risparmio. Fiducia che oggi molti di loro dicono tradita.

4,7 milioni di investimenti. La promessa di una scalata

L’azienda compare nelle cronache per la prima volta nel 2018. Ottiene 1,73 milioni da diversi investitori. Si presenta all’inizio come una società fintech (tecnologie applicate alla finanza). Dovrebbe essere in grado di capire cosa piace agli utenti, e suggerire il valore futuro di oggetti come macchine e vini pregiati. Secondo Crunchbase, autorevole bussola del mercato delle startup, nei successivi round ne raccoglie altri 3. Credo che quei numeri siano piuttosto gonfiati, conosco tutti quelli che ci hanno messo i soldi, e quanto hanno messo. Dubito che si sia arrivati a quelle cifre, racconta un altro investitore, diventato poi anche dipendente. Fino a una manciata di mesi fa, Magagnini si diceva sicuro del futuro della propria azienda. Pare abbia provato a infondere la sua sicurezza anche ai propri dipendenti. Sorpreso che l’azienda sia fallita? Per niente. Ma mi creda: nessuno di noi lo è. Nessuno di noi ha mai capito quello che stavamo facendo. E tra i dipendenti certe cose si sanno. Magari non si dicono, ma si sanno, commenta un altro dipendente.

Carte in Tribunale. “Ci abbiamo creduto. Poi abbiamo dovuto crederci”

All’inizio ci abbiamo creduto. Eravamo convinti. Poi le cose sono cambiate. Soprattutto dopo qualche mese di lavoro in azienda. Dal crederci davvero, abbiamo cominciato a crederci per forza. Da Kellify dipendevano non solo i nostri stipendi, il sostentamento delle nostre famiglie, ma anche i nostri progetti di vita, i sacrifici degli anni precedenti. Come convincersi della realtà di un’illusione. Entrare in un mondo di finzione, senza nessuna pillola blu per risvegliarsi. Ora le carte sono finite in tribunale. Il sito è stato messo offline. I canali social di Kellify oscurati. Nessun riferimento su LinkedIn. A parte interviste e video, è tutto sparito. Restano le carte. I bilanci. Le acquisizioni e le consulenze. Materiale su cui i giudici liguri cominceranno a lavorare il prossimo mese. Che chiariranno se i dubbi degli investitori sono fondati, o sono frutto di una tardiva voglia di vendetta.

Twitter: @arcamasilum

Un albero artificiale 1000 volte più efficiente di quelli veri

fonte: Corriere.it

Per la quasi totalità dei climatologi, l’alta concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre è la causa del riscaldamento globale e quindi dei cambiamenti climatici che stiamo sperimentando. Dunque, per contenere l’aumento di temperatura entro i limiti indicati dall’IPCC, è necessario ridurre drasticamente la quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera. Tuttavia, vista la velocità con cui sta aumentando la temperatura media del pianeta, questa soluzione da sola non sembra più sufficiente e se vogliamo sperare di raggiungere gli obiettivi occorre fare di più. Bisogna accelerare, togliendo dall’atmosfera parte dell’anidride carbonica già presente. Per riuscire in questa impresa, alla società irlandese Carbon Collect Ltd. si sono ispirati alla natura, precisamente agli alberi e alla loro capacità di assorbire anidride carbonica dall’aria tramite le foglie. Così hanno sviluppato un dispositivo chiamato MechanicalTree che si propone di diventare una tecnologia di punta per ridurre l’anidride carbonica in atmosfera. Questo “albero” artificiale è una struttura metallica alta circa 10 metri e contiene speciali “piastrelle” in grado di assorbire la CO2, che si estendono e si ritraggono in un ciclo costante di cattura e rigenerazione.

Il primo vantaggio del sistema consiste nel fatto che le future “fattorie” di questi alberi artificiali, per essere efficaci, non hanno bisogno di sorgere in corrispondenza o vicino alle fonti di emissione di CO2 come, ad esempio, una fabbrica o una centrale a carbone. Rispetto a un vero albero naturale, poi, MechanicalTree è fino a mille volte più efficiente nel rimuovere la CO2 dall’aria e la Carbon Collect ha già pianificato di iniziare con installazioni in grado di raccogliere fino a 1000 tonnellate al giorno di CO2. Ma soprattutto, al contrario di altre tecnologie simili, questa non necessita di pompe o sistemi di aspirazione elettrici costosi e a loro volta inquinanti. MechanicalTree, infatti, usa semplicemente il vento per far passare l’aria attraverso il sistema che, in questo modo, diventa una soluzione passiva caratterizzata da bassi costi di esercizio e quindi economicamente praticabile. Ma i vantaggi non finiscono qui perché l’anidride carbonica catturata dal sistema non solo contribuisce a combattere il riscaldamento globale, ma diventa essa stessa una risorsa che può essere venduta e riutilizzata in svariati settori come l’industria alimentare, delle bevande, l’agricoltura o l’energia.

Alla base della tecnologia di MechanicalTree c’è l’intuizione del professore d’ingegneria dell’Arizona State University Klaus Lackner che, nel 1999, fu tra i primi scienziati al mondo a suggerire che è possibile contrastare il riscaldamento globale catturando la CO2 dall’aria. Lackner era convinto che per affrontare il problema fosse necessario immaginare strategie ambiziose e la rimozione della CO2 dall’aria era appunto una di queste. Non a caso egli sosteneva che il suo obiettivo era «prendere un processo che richiede 100.000 anni e comprimerlo in 30 minuti». Per arrivare a questo risultato, però, ci sono voluti ben vent’anni di studi e due di progettazione. L’idea da cui tutto è partito, però, non è stata del professor Lackner ma di sua figlia Claire che doveva partecipare a un concorso di scienze di scuola media. Claire riuscì a dimostrare che si poteva catturare l’anidride carbonica dall’aria facendola reagire con l’idrossido di sodio, semplicemente usando una pompa per acquario. Padre e figlia scoprirono che con quel rudimentale dispositivo si riusciva a catturare addirittura metà dell’anidride carbonica che attraversava una provetta. Questa dimostrazione fruttò a Claire il primo premio al concorso scolastico e spinse il padre a iniziare una ricerca che ha portato a un dispositivo potenzialmente in grado di rivoluzionare il modo in cui affrontiamo la lotta ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale.

ACDC machevvordì?

full credits: CampoElettrico.it

Siamo nel 1799 quando Alessandro Volta inventa il primo generatore elettrico della storia, ovvero la Pila di Volta. In breve, la fonte di energia elettrica è rappresentata da un prototipo delle moderne batterie elettriche in grado di generare corrente costante continua. Nel 1880 vengono introdotte le dinamo, con Thomas Alva Edison che brevetta la prima forma di distribuzione di corrente continua.

Per quanto riguarda la corrente alternata, inventata da Nikola Tesla nel 1888, la prima forma di distribuzione viene messa a punto nel 1911 da George Westinghouse Jr. Con una richiesta di energia elettrica sempre maggiore si scatena una vera e propria guerra delle correnti: l’obiettivo principale è quello di trasportare la maggiore quantità possibile di energia su grandi distanze al minor costo possibile.

L’intuizione vincente è quella di Tesla: lavorando inizialmente nel laboratorio di Edison, tenta di convincere quest’ultimo della convenienza delle correnti alternate in termini di distribuzione dell’energia. Oltre ad essere più economica da generare, la corrente alternata implica una tensione maggiore con perdite minori durante il trasporto, se paragonata alla corrente continua.

Nel sistema CONTINUO si verifica un flusso costante di cariche elettriche che attraversa un conduttore, tipo un cavo elettrico, circolando sempre nella medesima direzione. Esempio classico: una batteria che, producendo energia, alimenta una lampadina mantenendola accesa con un’intensità costante nel tempo. La polarizzazione dei due poli della batteria resta invariata nel tempo ed il flusso degli elettroni nel circuito produce una tensione continua costante.

Invece, nel sistema ALTERNATO l’andamento della corrente è sinusoidale. Nel passaggio ciclico tra picco massimo positivo e picco minimo negativo si genera un’inversione fra le cariche elettriche. L’andamento sinusoidale è generato spontaneamente dal meccanismo alla base del sistema alternato, ovvero un magnete in rotazione all’interno di una spira.

Nei settori civile e domestico si parla di tensione alternata, in realtà facendo riferimento alla tensione efficace. La tensione efficace può essere definita come il valore di grandezza elettrica che, in corrente continua e con lo stesso carico, produrrebbe la stessa quantità di calore. I famosi 220 V delle prese elettriche domestiche sono in realtà il valore efficace di una tensione alternata i cui valori di picco sono all’incirca ±311 V.

FEA – analisi a elementi finiti: cenni

full credits: Manuale dello Stampaggio Progettato

FEA (Finite Element Analysis), trattasi di una metodologia di calcolo basata su approcci analitici possibili solo con le elevate capacità di calcolo fornite dai computer.
Viene identificata anche come FEM (Finite Element Modelling) o, erroneamente, FMEA (Failure Mode and Effects Analysis) – quest’ultima trattasi di una metodologia sistematica per analizzare prodotti e processi sulla base dello studio dei componenti e delle loro specifiche funzioni, allo scopo di anticipare i possibili problemi (o guasti) e trovarne i rimedi. In realtà le FEA costituiscono spesso un tassello fondamentale per soddisfare le esigenze della metodologia FMEA.
Le metodologie FEA, sviluppate inizialmente per le analisi strutturali (stress analysis) ad un livello accademico o per strutture di grandissimo impegno ingegneristico, si sono evolute, contemporaneamente alla riduzione dei costi dei computer, ad un uso più “quotidiano” e, grazie ad opportune varianti, allo studio dei vari aspetti del comportamento di modelli in varie situazioni quali per esempio la simulazione dei processi di trasformazione.
Fondamentalmente queste analisi permettono di determinare la ripartizione delle sollecitazioni in pezzi con forme per le quali non esiste una soluzione matematica completa (equazioni finite) e che, quindi, richiedevano l’impiego di analisi sperimentali. La loro origine è nell’ingegneria civile e, di fatto, la tecnica iniziale assomigliava in qualche modo all’analisi di travi (truss analysis). Il metodo si è poi evoluto, prima nell’industria aerospaziale e, a seguire, quella automobilistica e, infine, a quella dei manufatti con esigenze funzionali.
L’idea alla base della FEA è di dividere in parti relativamente semplici, per l’appunto gli elementi finiti, una struttura di qualsiasi complessità di forma.

La geometria di ogni elemento è quindi descritta da un certo numero di nodi, tipicamente situati ai vertici dell’elemento, in alcuni casi anche sul suo contorno e, talvolta, persino al suo interno. Nel caso classico dell’analisi statica lineare (la forma più semplice) il movimento di ogni punto di ciascun elemento è assunto come funzione nota dei movimenti dei nodi; ciò permette di definire la rigidità dell’elemento e di calcolare il comportamento dello stesso in funzione dell’applicazione di una serie di carichi bilanciati. Poiché gli elementi sono connessi attraverso i nodi comuni, si trova la rigidità degli elementi che contornano un nodo relativamente al suo spostamento e allo spostamento degli altri nodi degli elementi al contorno. Se ciò è ripetuto per ogni nodo del modello, si ottiene una serie di equazioni simultanee che possono essere risolte per determinare lo spostamento di tutti i nodi.

La matematica di questo tipo di equazioni si identifica con il calcolo matriciale. In termini semplici, la matrice è un insieme di numeri disposti in una tabella per righe e per colonne dove ogni numero è identificato da due indici per indicare rispettivamente la riga e la colonna. Il calcolo matriciale è quindi lo studio sistematico delle operazioni che si possono eseguire su queste matrici.
Nel caso specifico, i valori delle coordinate dei nodi sono sistemati in ciò che è tipicamente chiamata matrice B di ogni elemento. Un’altra griglia di numeri forma la matrice D con le proprietà elastiche del materiale. Una serie specifica di moltiplicazioni e divisioni trasforma le matrici B e D nella matrice di rigidità K. A sua volta quest’ultima è assemblata in una matrice di riferimento del manufatto intero. Elementi specifici di questa matrice sono combinati con i carichi e i vincoli esterni. Dopo i calcoli si giunge così alla determinazione degli spostamenti nodali, quindi delle deformazioni (strains) che, assumendo la linearità di comportamento elastico del materiale, si traducono direttamente in sollecitazioni (stress) sullo stesso.
Nel campo ingegneristico della rispondenza meccanica di una struttura, l’uso più comune del metodo FEA è per le analisi elastiche statiche lineari in cui il modello elastico del materiale si può assumere costante nell’intervallo di sforzi/deformazioni considerato e le deformazioni sono sufficientemente piccole da non modificare sostanzialmente la geometria. In realtà esistono almeno due tipi di non linearità di comportamento anche per le analisi di struttura: non linearità geometrica e non linearità del materiale.

La non linearità geometrica si produce quando le distorsioni assumono un valore tale da modificare la linea di azione delle forze. In genere, per i polimeri si assume che quando la deformazione supera l’1.5% l’accuratezza dei risultati peggiora molto rapidamente a meno di utilizzare elementi particolari. Classicamente, questa mancanza di linearità si risolve applicando i carichi con gradualità e modificando la geometria dopo ogni calcolo intermedio. Ciò complica moltissimo le cose e, sebbene per le materie plastiche la situazione di deformazioni relativamente grandi è molto frequente, spesso analisi strutturali di supporto alla progettazione di manufatti ignorano questa problematica.
La non linearità del materiale si manifesta quando il modulo elastico varia con la sollecitazione o quando si hanno deformazioni da scorrimento viscoso (funzione del carico e del tempo). Sfortunatamente, ancora una volta i termoplastici sono il miglior esempio di questa complessità di comportamento. In queste condizioni di non linearità, una classica analisi FEA richiede di iniziare con un modulo stimato che deve poi essere variato in modo iterativo in funzione dei risultati. Per questo motivo le analisi di rigidità con i materiali plastici richiedono l’assistenza di uno specialista in analisi strutturali che sia in grado di decidere quali elementi e assunzioni utilizzare. La conoscenza dei potenziali problemi del modello e una buona comprensione del comportamento dei materiali plastici sono quindi essenziali.
Anche un’accurata analisi di stress è raramente in grado di concludere un’attività di progettazione che richiede sempre la capacità di giudicare che i carichi siano stati applicati correttamente e che le proprietà del materiale siano sufficientemente ben descritte. Fatte salve queste verifiche, l’analisi strutturale è in grado di rimuovere le maggiori incertezze nello sviluppo di un progetto di un manufatto.