Chi parla due lingue ha il cervello più forte

fonte: questo articolo de La Repubblica

Passando da un idioma all’altro la mente costruisce una riserva. Che gli permette di adattarsi alla nuova situazione e di recuperare le funzioni cognitive. Lo evidenziano le tecniche di riabilitazione post- ictus

 

Parlare due o più lingue aiuta a riprendersi dopo un ictus. Tutto merito della cosiddetta riserva cognitiva: la capacità del cervello di resistere in situazioni di emergenza. A Hyderabad, oltre l’inglese e l’hindi, si parlano l’urdu e il telugu. L’effetto è un cicaleccio variegato di suoni. A tutto vantaggio del cervello che, passando da un idioma all’altro, rafforza le proprie connessioni cerebrali, le sinapsi. Proteggendosi. Anche dai danni dell’ictus.
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Suvarna Alladi è una neurologa del National Institute of Mental Health and Neurosciences di Bangalore, in India, e ha analizzato le perfomance di recupero post-ictus di oltre 600 pazienti proprio nella città poliglotta Hyderabad, dove in tanti, indipendentemente dal livello di istruzione e dallo stato sociale, parlano due o più lingue. Dei 608 pazienti seguiti per oltre due anni 255 ne parlavano una sola e 353 ne parlavano (almeno) due. Questi ultimi avevano performance di recupero nettamente migliori, e nel complesso quelli che avevano funzioni cognitive normali dopo l’ictus erano circa il doppio. Come se il bilinguismo avesse protetto il cervello dal danno, rendendolo più plastico e in qualche modo più forte.
Quando abbiamo due lingue madre il nostro cervello è più attivo in diverse aree. “È come se la nostra corteccia cerebrale svolgesse più compiti nel passare da una lingua all’altra“, commenta Leandro Provinciali, presidente della Società italiana di neurologia. E, spiegano i ricercatori indiani, l’allenamento rafforza il cervello preparandolo a rispondere meglio a eventuali danni.
Quello che accade, continua Provinciali, è la dimostrazione delle grandissime capacità di plasticità e adattamento del cervello: “Nei bilingue la scelta delle parole si fa in base al contesto in cui ci si trova, pescando dalle risorse che servono al momento. Il cervello si allena a sviluppare queste strategie alternative“. Ovvero, se il contesto cambia, come accade in seguito al danno da ictus, il cervello si adatta a rispondere a una nuova situazione. L’idea è che con le lingue il cervello costruisca un pozzo da cui pescare in caso di emergenza. Una riserva cognitiva. Insomma, quando la benzina finisce l’automobile va in riserva e la macchina continua a camminare. Senza che noi ce ne accorgiamo. Quella cognitiva funziona in maniera pressoché simile: quando le abilità vengono compromesse, per esempio dall’ictus, il cervello ripiega sulla riserva per continuare a mantenere le proprie funzioni. A questa riserva cognitiva serve tutto: dalle lezioni di musica, alla lettura, alle lingue ovviamente, spiegano gli scienziati.
Il recupero dall’ictus è l’ultima scoperta dei neurologi che indagano sul cosiddetto “vantaggio dei bilingui”, che , ad esempio, si associa a un ritardo nella comparsa dei sintomi, e quindi della diagnosi, dell’Alzheimer. Ma, bizzarramente, non migliora le abilità linguistiche, hanno notato Suvarna e colleghi. A conferma che saper passare dall’hindi, all’inglese, all’urdu non aiuta a migliorare la lingua in sé. Aiuta, piuttosto, a far riserva.
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il neurone sintetico vuole essere una rivoluzione

da questo articolo de La Repubblica (13 luglio 2015)

Funziona come un trasformatore, convertendo segnali chimici in elettrici e quindi di nuovo chimici: in futuro il minuscolo dispositivo potrebbe essere impiantato per e utilizzato per trattare disturbi neurologici

Nel nostro cervello abbiamo qualcosa come 86 miliardi di neuroni, ognuno dei quali può formare migliaia di sinapsi. In questa enorme e complicata rete viaggiano e trovano la strada (senza quasi mai perdersi) le informazioni più diverse: da quelle visive, a quelle olfattive e uditive, a quelle che codificano un movimento, un pensiero, un ricordo. E tutto si realizza grazie ai neuroni, le cellule del sistema nervoso, che raccolgono un segnale chimico (da un neurotrasmettitore), lo trasformano in un segnale elettrico (il potenziale d’azione che viaggia lungo l’assone, il cordone dei neuroni) e lo riconvertono in un segnale chimico (un nuovo neurotrasmettitore) all’estremità opposta. Semplificando e in termini generali, è questa la catena di eventi che permette ad un’informazione di viaggiare.

Di recente, un team di ricercatori del Swedish Medical Nanoscience Centre (SMNC) del Karolinska Institutet è riuscito a mimarla creando un neurone sintetico. Sottile e lungo pochi centimetri (poco più di un polpastrello), il neurone biomimetico presentato sulle pagine di Biosensors & Bioelectronics non è fatto di materiale vivente (biologico), eppure riesce perfettamente a comunicare con cellule umane. A spiegare come funziona è Agneta Richter-Dahlfors, la ricercatrice a capo del progetto: “Il nostro neurone artificiale è costituito di polimeri conduttivi (materiali in grado di condurre corrente elettrica) e funziona come un neurone umano“. Il neurone sintetico è costituito di due parti:

  • una sensibile, costituita da un biosensore, che percepisce cambiamenti di segnali chimici;
  • ed una che trasforma questi cambiamenti in un segnale elettrico, tradotto nuovamente in un segnale chimico attraverso un costrutto assimilabile a una pompa ionica.

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Se le due estremità del neurone vengono collegate a due piastre di Petri diverse (le normali piastre da laboratorio) è possibile indurre un cambiamento chimico nella prima e osservare il rilascio di un neurotrasmettitore nella seconda. Tutto questo è possibile perché il segnale elettrico generato da un cambiamento nell’ambiente chimico nella prima capsula viene interpretato e utilizzato per guidare il rilascio di un altro trasmettitore all’altra estremità del neurone sintetico, capace di avere effetti su cellule presenti nell’altra capsula. Più o meno come farebbe un neurone reale. I ricercatori sperano ora di riuscire a miniaturizzare il dispositivo, così che possa essere utilizzato per trattare disturbi neurologici. L’idea, infatti, è che uno o più neuroni sintetici possano essere stimolati – e quindi produrre un effetto – a partire da cambiamenti chimici dell’ambiente e non solo elettrici. Dispositivi analoghi potrebbero essere impiantati e usati per recuperare funzioni perse in seguito a danno neuronale o magari essere utilizzati per produrre degli effetti a distanza, sfruttando la tecnologia wireless, spiega Richter-Dahlfors: “Il biosensore potrebbe infatti essere collocato in una parte del corpo, e innescare il rilascio di neurotrasmettitori in luoghi distanti. Potremmo immaginare sia un sistema autoregolato sia controllato da un telecomando, immaginando nuove strategie per il trattamento dei disturbi neurologici“.

D T. Simon, K. C. Larsson, D. Nilsson, G. Burström, D. Galter, M. Berggren, A. Richter-Dahlfors, “An organic electronic biomimetic neuron enables auto-regulated neuromodulation“, Biosensors & Bioelectronics, first online 22 April 2015, Volume 71, 15 September 2015, Pages 359–364.